La decisione del Consiglio dei ministri di destinare una speciale indennità ai medici e agli infermieri dei Pronto soccorso (Ps) merita qualche riflessione.

Si tratta anzitutto di un atto dovuto, che manifesta il riconoscimento del governo nei confronti di una categoria di operatori del Servizio sanitario nazionale che lavorano in condizioni di particolare disagio e difficoltà.

Si tratta anche di un tentativo di porre in qualche modo un freno alla gravissima carenza di medici che affligge già da molti anni questi reparti, ma che ora sta assumendo le caratteristiche di una vera emergenza.

Un altro intervento per tamponare le criticità del momento non viene dal ministro della Salute, ma nasce da molte direzioni ospedaliere che hanno deciso di affidare la copertura dei turni di Ps a cooperative di medici che sfuggono spesso ai requisiti normalmente richiesti per lavorare in ospedale.

Molti di questi medici non sono infatti specializzati e si spostano da un ospedale all’altro cumulando una quantità spropositata di ore di servizio (pagate fino a 120 euro lordi/ora).

Le prevedibili conseguenze sono una totale difformità nella qualità delle cure tra medico e medico, un incremento del rischio per i pazienti, il veloce dissiparsi di una cultura clinica dell’urgenza che in Italia si era faticosamente costruita negli ultimi decenni.

Le ragioni di una disaffezione

LaPresse

Le ragioni della disaffezione nei confronti della medicina di emergenza-urgenza da parte dei giovani medici sono molteplici e sono state più volte ripetute: turni massacranti per l’elevato numero di notti e di weekend lavorati e per il costante affollamento dei Pronto Soccorso, rischio elevato di cause medico-legali, frequenti minacce e occasionali aggressioni da parte degli utenti.

Sarebbe però un errore fermarsi a questa analisi superficiale, perché la cause della crisi dei Pronto soccorso sono molto più complesse e necessitano di risposte di ben più ampio respiro.

Per cominciare, sarà bene ricordare che tra il 1996 e il 2013 nel nostro paese sono stati tagliati 132.681 letti negli ospedali pubblici e 12.820 negli ospedali privati accreditati (dati dell’Annuario  statistico del ministero della Salute).

Questo taglio, dovuto in gran parte a necessità di risparmio economico e solo occasionalmente a una razionalizzazione dei servizi, ha portato la media di letti ospedalieri per 1.000 abitanti a 3,1 contro i 4,9 dei paesi Ocse e gli 8 della Germania.

Siamo purtroppo ancora in attesa della grande riforma della sanità territoriale che avrebbe potuto mitigare le conseguenze di questo intervento draconiano. Ed è proprio dal taglio dei posti letto ospedalieri e dal malfunzionamento della medicina territoriale  che nasce la crisi dei Pronto soccorso. 

In sintesi estrema, la prima risposta alla carenza di letti ospedalieri è stata quella di una forte contrazione dei ricoveri in urgenza che negli ultimi vent’anni si sono di fatto dimezzati (dal 25 al 13,5 per cento).

Per i Pronto soccorso dimettere in sicurezza molti più pazienti ha voluto dire moltiplicare gli esami e il tempo di osservazione, con una permanenza media che si è di conseguenza molto allungata.

Anche questo però non è bastato e le persone che, nonostante questo maggiore sforzo per dimettere, non possono che essere ricoverate, si affollano nei Pronto soccorso in attesa che si liberi un posto letto per essere trasferite nei reparti di degenza.

In molti grandi ospedali questa attesa può durare fino a una settimana. Assistiamo dunque al paradosso per cui molti malati restano in Pronto soccorso un tempo analogo a quello di una degenza ottimale e vengono ricoverati quando, in un sistema efficiente, sarebbe giunto il momento di rimandarli a casa loro.

Oltre a essere causa di affollamento degli spazi, è stato dimostrato che questa situazione peggiora la prognosi dei malati più gravi, aumenta il rischio di errori da parte dei medici, può essere causa di problemi iatrogeni come lo sviluppo di un delirium o  di una infezione ospedaliera.

La risposta a questo stato di cose, oltre che in una inversione di marcia sul versante dei posti letto, non può che stare in una buona programmazione.

La tesi che programmare sia impossibile perché il numero e il tipo degli accessi in urgenza al Pronto soccorso sarebbe imprevedibile è risibile.

In realtà i database di ogni ospedale dimostrano come la necessità di posti letto per il Pronto soccorso segua andamenti assolutamente prevedibili nelle ore, nei giorni e nei mesi dell’anno.

Purtroppo tanto le regioni quanto le Aziende ospedaliere, finito il grande sforzo organizzativo del periodo pandemico, non danno segno di essersene accorte, né di volersi seriamente occupare del problema.

L’altra faccia della medaglia è quella della medicina territoriale, alla quale si calcola che sfuggano ogni anno tra i cinque e i dieci milioni di pazienti che accedono al Pronto soccorso per problemi gestibili dai medici di medicina generale.

Il Pnrr e il progetto delle case di comunità fanno intravedere uno spiraglio che però non sarà sufficiente se la disponibilità di finanziamenti e di nuovi edifici non si accompagnerà a una profonda modifica della cultura e dell’organizzazione di tutta la medicina generale.

Uno dei cambiamenti più semplici per dare una svolta al problema sarebbe quello di superare la prassi degli accessi solo su appuntamento, prevedendo la possibilità di un accesso diretto entro la giornata per i casi con caratteristiche di acuzie o di urgenza minore.

Una seconda importante modifica sarebbe che negli ambulatori della medicina generale (in tutti, non solo in quelli virtuosi che per fortuna esistono) i cittadini potessero trovare quel minimo di diagnostica strumentale di base (esami di laboratorio, Ecg, ecografia di primo livello) che la moderna tecnologia mette a disposizione di tutti i medici con buona qualità e costi ragionevoli.

In conclusione il  periodo di grave difficoltà in cui versano i Pronto soccorso è destinato a durare parecchi anni e non saranno duecento euro in più al mese a invertire la tendenza.

La strada per superare questa grave situazione è innanzitutto quella di  riconoscere che un Pronto soccorso “malato” è il prodotto di un ospedale “malato” e che un ospedale malato è a sua volta, molto spesso, il risultato di un sistema sanitario che deve essere profondamente riformato.    

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