Cosa è successo davvero tra l’istituto di ricerca Spallanzani di Roma, centro di eccellenza sulle malattie infettive, e la Russia di Vladimir Putin? Perché l’Italia, ai tempi dei governi Conte, si è prestata a una operazione di politica sanitaria e propaganda gestita direttamente dal Cremlino? Quali interessi c’erano in gioco? Nell’inchiesta di Andrea Casadio  ecco finalmente le risposte.


Se vuoi sviluppare un vaccino contro un virus ti devi prima procurare quel virus vivo e poi metterlo in coltura per fare gli esperimenti. E dove è più facile trovarlo? Dove ce n’è di più. Nel marzo 2020, l’Italia era il paese al mondo con il più alto numero di casi di Covid: se qualcuno voleva trovare il virus vivo doveva venire da noi.

A metà marzo, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, alla guida di un governo Cinque stelle-Pd non nemico del Cremlino, chiama il presidente russo Vladimir Putin e concorda con lui un piano di aiuti. I russi organizzano una spedizione che con un pizzico d’ironia chiamano “Dalla Russia con amore”.

Cosa vogliono i russi

La sera del 22 marzo, all’aeroporto militare di Pratica di Mare atterrano 13 quadrireattori Ilyushin che trasportano 104 persone – 28 medici, 4 infermieri, il resto militari e forse apparati dell’intelligence, camion e veicoli vari.

Al loro comando c’è il generale Sergey Kikot, vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica e biologica dell’esercito russo. Con lui Natalia Pshenichnaya, vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche, e Aleksandr Semenov, dell’Istituto Pasteur di San Pietroburgo, entrambi membri del Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile a cui il presidente Vladimir Putin ha affidato il contrasto all’epidemia.

Appena sbarcato, il generale Sergey Kikot viene convocato a una riunione a Palazzo Chigi, organizzata dopo una telefonata tra Conte e Putin in persona.

Al meeting segreto, sono presenti Conte, il generale Kikot, il generale Luciano Portolano, comandante del Comando Operativo Interforze, e i membri del CTS Agostino Miozzo e Fabio Ciciliano. Kikot, dice Miozzo, «parlava come se dovessero bonificare Chernobyl dopo l’esplosione nucleare. Ci disse che gli accordi di alto livello prevedevano sanificazioni su tutto il territorio e disse che loro intendevano sanificare tutti gli edifici, compresi quelli pubblici». I due rifiutarono. Kikot e i suoi potevano visitare solo ospedali e ospizi per anziani.

I russi volevano solo portarci un aiuto disinteressato? Oppure cercavano qualcosa? Magari proprio quei campioni di virus vivo necessari per sviluppare il vaccino che potevano trovare in gran quantità dentro gli ospedali e le Rsa del Nord, dove erano ricoverati migliaia di malati portatori del virus?

Quel 22 marzo, da noi si contavano 80.539 contagiati ufficiali (ma erano molti di più), e 8.165 decessi. La zona peggiore era Bergamo, con 7.458 malati. E i Russi vanno proprio lì, a Bergamo.

Niente da offrire, molto da prendere

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Secondo la versione dei governi di Roma e di Mosca, i russi arrivano per portare aiuto, ma sono gli atti ufficiali a smentirla. Per l’emergenza, servirebbero 90 milioni di mascherine al mese e almeno 300mila tamponi al giorno.

La viceministra degli Esteri Emanuela Del Re afferma che i russi ci consegnano: «521.800 mascherine, 30 ventilatori polmonari, 1.000 tute protettive, 2 macchine per analisi di tamponi, 10.000 tamponi veloci e 100.000 tamponi normali». Materiale che non bastava nemmeno per mezza giornata. Allora, cosa vanno a fare i russi a Bergamo? Semplice: per cercare esemplari di virus vivo.

I russi arrivano Bergamo con un lungo convoglio militare con camion attrezzati, dai quali scendono operatori sigillati dentro scafandri a tenuta stagna, che cominciano a visitare freneticamente ospedali e ospizi per anziani.

Un direttore di una Rsa vicino a Bergamo racconta: «I russi ci hanno offerto di fornire dei tamponi che poi avrebbero processato in autonomia. Loro dicevano che disponevano di un laboratorio militare e che ci avrebbero pensato da soli. Io però ho pensato subito che quei dati potevano essere usati per fare delle ricerche, che insomma non si trattava solo di solidarietà».

Il suo sospetto è fondato: «Ho spiegato a un colonnello cosa mi avevano offerto e lui mi ha confermato che era meglio non accettare e di limitarci alla sanificazione. So che quello che è accaduto a me non è un caso isolato, le richieste sono state fatte anche ad altre Rsa».

Molto probabilmente, tra i mezzi militari arrivati da Mosca c’era un laboratorio attrezzato in grado di processare tamponi, sequenziare i campioni, e tentare di ottenere colture cellulari nelle quali il virus potesse crescere. In questi casi il tempo è un fattore essenziale: il tampone con il virus vivo estratto da un infetto deve essere subito seminato su cellule adatte in coltura, perché un virus fuori dalla cellula in breve tempo muore.

A quel tempo i russi non erano riusciti a procurarsi il virus vivo perché all’epoca in Russia i malati di Covid da cui prelevarlo erano solo una decina, e ancora non erano ancora riusciti a sviluppare un metodo per crescere il virus in colture cellulari. Solo se disponi di una quantità sufficiente di virus riesci a sequenziare il suo genoma, e a produrre il vaccino.

E qui inizia il mistero.

Le ricerche a Mosca

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Proprio in quei giorni, gli scienziati dell’Istituto Gamaleya, il centro di ricerche microbiologiche statale russo, stavano iniziando le ricerche per produrre un vaccino, ma per farlo dovevano prima generare un loro ceppo virale vivo su cui poi effettuare gli esperimenti. Vladimir Gutschin, scienziato del Gamaleya, ha raccontato al New Yorker, prestigioso settimanale americano, che per molti giorni in marzo lui e altri ricercatori del suo laboratorio avevano cercato di ottenere campioni del virus prelevandoli dai pochi malati di Covid presenti negli ospedali di Mosca.

«Alla fine, siamo riusciti ad ottenere il ceppo di virus che poi abbiamo utilizzato per testare il nostro vaccino Sputnik V da un cittadino russo che era stato a Roma il 15 marzo. Era già malato quando è atterrato all’aeroporto di Mosca, ed è stato subito portato in ospedale. Io e il mio team abbiamo prelevato il tampone nasale dal paziente il 17 marzo».

E poi Gutschin continua: «Da quel campione abbiamo ottenuto il genoma del virus. Abbiamo capito subito che era materiale preziosissimo, ma c’erano molte cose che allora non sapevamo- come coltivare il virus, quanto a lungo avrebbe potuto sopravvivere in coltura e qual era la probabilità di infettarsi maneggiando quel campione».

«Qui c’è qualcosa che non torna», dice un esperto biologo molecolare a conoscenza dei fatti, che preferisce restare anonimo. «Gutschin prima dice che sono riusciti a ottenere una linea di virus in coltura per sviluppare il vaccino, poi dice che non sapevano come coltivare il virus: quale delle due frasi è vera? Come hanno fatto i Russi a sviluppare il vaccino se per loro stessa ammissione non sapevano coltivare il virus? Perché senza il virus in coltura tu un vaccino non lo riesci a fare.

Se io so qual è il gene del mio virus che induce la migliore risposta immunitaria, ci metto poco a costruire in laboratorio un vaccino con un virus modificato che contenga quel gene: prima devo avere cellule in coltura infettate dal coronavirus, dalle quali isolo l’Rna che codifica per il gene che mi interessa; poi trasformo l’Rna di quel gene in Dna che inserisco dentro al genoma del virus del mio vaccino. Poi, ottenuto il vaccino, lo devo testare prima di tutto in vitro, e a quel punto mi servono di nuovo le colture virali».

Il biologo ha un sospetto e avanza sue ipotesi: «La prima possibilità è che i russi a Bergamo a fine marzo siano riusciti a ottenere un campione di virus vivo che poi sono riusciti a coltivare in vitro secondo il metodo messo a punto dallo Spallanzani, che qualcuno evidentemente gli ha insegnato; oppure, e sarebbe l’ipotesi peggiore, qualcuno dello Spallanzani ha passato ai russi direttamente il ceppo virale in coltura, che era quello già isolato dagli scienziati italiani.

Poi i russi per mescolare le carte si sono inventati la favola che avevano isolato il ceppo virale prelevandolo da un paziente a Mosca il 17 marzo, cioè cinque giorni prima del loro arrivo in Italia, perché qualcuno non sospettasse che il virus l’avevano ottenuto qui da noi».

Fatto sta che gli scienziati russi del Gamaleya da marzo 2020, appena entrati in possesso della linea virale in coltura, si mettono a sviluppare il vaccino contro il Covid, mentre gli scienziati dello Spallanzani, che avevano tutto pronto dai primi di febbraio, non fanno nulla.

Se sono veri i nostri sospetti, chi dentro all’Istituto Spallanzani ha passato informazioni preziose o addirittura le linee virali agli scienziati dell’istituto Gamaleya?

«Sicuramente non gli scienziati del team che ha isolato il virus, ci metto la mano sul fuoco», dice la nostra fonte.

Allora, chi è stato?

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