Giorgia Meloni non ritira le querele ai giornalisti, ha detto. Ma mentre Roberto Saviano prima e Domani dopo, andranno a processo per le querele per diffamazione ricevute dalla presidente del Consiglio, lei è al riparo: la Giunta per le autorizzazioni della Camera ha rinviato ieri a data da destinarsi il suo caso da indagata per diffamazione, e discuterà sul suo scudo parlamentare più in là, quando lo riterrà opportuno. Non c’è alcuna data.

Nel frattempo Giorgia Meloni ha chiesto al parlamento di bloccare un’altra querela: quella dell’europarlamentare Sandro Gozi. Oggi si è riunito l’ufficio di presidenza, i casi “avanzati” dalla scorsa legislatura sono tra i più vari, e dei due riguardanti il capo dello governo nessuno è ritenuto urgente. Per Meloni i processi possono aspettare.

Le documentazioni sulla scrivania della giunta targate “Meloni” sono due. La prima riguarda Fabrizio Pignalberi, ex candidato di Fratelli d’Italia e fondatore del Movimento Più Italia finito al centro di un servizio delle Iene.

Giulio Golia a giugno 2021 ha raccontato di un gruppo di persone che lamentavano di essere vittima di truffe e accusavano Pignalberi. Il programma Mediaset, oltre a dare spazio ai loro casi, ricostruiva il passato di militante e attivista di destra e l’accordo di collaborazione tra il nuovo movimento e Fratelli d’Italia.

Meloni si è giustificata su Twitter: «Non avremmo potuto immaginare che fosse un truffatore». Pignalberi si è sentito diffamato e ha sporto denuncia, ma a oggi non gli è dato sapere se potrà portare a giudizio l’allora deputata ora presidente del Consiglio. La settimana scorsa ha deciso di ricorrere in sede civile per chiederle i danni.

Giornalisti

Meloni da «giornalista, politico e cittadino», come ha fatto scrivere al suo avvocato, porta questo giornale in tribunale per aver scritto che ha “raccomandato” un imprenditore: i fatti sono incontestabili, Meloni ha messo in contatto un imprenditore (ora deputato di FdI) con l’ex commissario all’emergenza Covid Domenico Arcuri, ma la premier dice che non era una “raccomandazione”. Quando è lei sotto accusa, Meloni si appella alla Costituzione che dà ai politici nell’esercizio delle loro funzioni il diritto all’insindacabilità.

Nel caso Pignalberi la documentazione è stata inviata dal giudice, ma nel caso Gozi a chiedere che la Giunta intervenga è stata direttamente Giorgia Meloni.

Nell’allegato al resoconto dei lavori della Camera del 13 ottobre si legge che sono mantenute all’ordine del giorno le richieste di deliberazione in materia d’insindacabilità avanzate da parlamentari, e tra i procedimenti se ne trova uno relativo a Meloni. La documentazione non è ancora stata pubblicata, ma, riferiscono più fonti della commissione, riguarda dichiarazioni dell’attuale premier su Sandro Gozi che nel 2019 è diventato europarlamentare per il partito di Emmanuel Macron.

Più casi più misure

Su Meloni si prende tempo, ma già nella passata legislatura la giunta aveva deciso di dare ragione a lei per il caso Pignalberi. Catello Vitiello (oggi non rieletto) di Italia viva aveva perorato la sua causa. La commissione aveva votato in suo favore, e a dichiarare Meloni insindacabile era stato il presidente della giunta della passata legislatura: Andrea Delmastro Delle Vedove, il suo ex avvocato (lo stesso che ha avviato la querela contro Domani), ora sottosegretario alla Giustizia. La decisione però non ha fatto in tempo a diventare definitiva nella passata legislatura.

Per ora la giunta ha in programma di mandare avanti i casi dell’onorevole Carlo Fidanza di Fratelli d’Italia, querelato per un video contro una mostra, e quello del leghista Alessandro Morelli querelato dal sindaco di Milano Beppe Sala per un post su Facebook. Anche in questo caso è stato Morelli a chiedere l’intervento del parlamento.

Marco Lacarra, Pd, segretario della giunta, racconta che il presidente Enrico Costa (Azione-Italia viva) ha proposto di trattare i casi in ordine “cronologico” dando precedenza all’urgenza giudiziaria o all’ordine di arrivo: «Come Pd abbiamo chiesto di dare rilievo al peso giudiziario». Con nessun criterio è mai il turno di Meloni.

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