Più passano i giorni, più Silvio Berlusconi rimane convinto di poter competere nella corsa al Colle. Sordo alle rispettose obiezioni di Giorgia Meloni, che pubblicamente gli conferma l’appoggio ma si chiede «se il centrodestra ha i voti». Cieco davanti anche alle obiezioni riservate di chi gli ricorda che il suo passato di scontri personali con i magistrati non lo rende un profilo adatto a diventare il vertice del Csm. Indifferente al fatto che la sua non sarebbe un’elezione condivisa con il versante giallorosso della maggioranza di cui fa parte.

Berlusconi è in campo a tutti gli effetti, si muove da candidato in pectore e punta tutto sul suo essere il padre nobile del centrodestra, quello che l’ha fondato e ancora l’unico in grado di tenerlo unito senza farlo deragliare su posizioni troppo estreme. Con almeno una certezza: lui non farà mai la fine di un altro padre nobile – questa volta del centrosinistra – che finì impallinato da 101 franchi tiratori del suo stesso partito.

Certo le condizioni sono molto diverse rispetto al quel 2013 in cui il caos parlamentare obbligò Giorgio Napolitano al mandato bis, dopo aver visto il centrosinistra bruciare entrambe le sue candidature ufficiali: prima quella del presidente del Senato, Franco Marini, poi quella di Romano Prodi.

Nella foto: Romano Prodi con Enrico Letta durante la presentazione del suo libro autobiografico ‘Strana vita, la mia’ alla Feltrinelli di Galleria Sordi

Memore forse anche dell’esperienza del suo nemico di un tempo, l’unico che l’ha sconfitto due volte alle urne, Berlusconi sta gestendo la sua nuova discesa in campo attento ad evitare tutti gli ostacoli noti. Prima di tutto, non intende essere il candidato di bandiera ma solo quello con cui tentare la scalata dalla quarta votazione in poi.

Gli avversari

Per farlo, Berlusconi sta già facendo i conti meglio di come provò a fare l’allora segretario del Partito democratico, Pierluigi Bersani.

Ha fatto filtrare di considerarsi “quirinabile” già in settembre: poteva sembrare troppo presto, ma in questo modo ha di fatto bloccato qualsiasi altra candidatura di centrodestra. Nessuno, infatti, si è ancora sognato di muoversi se non anteponendo al suo nome quello del Cavaliere. Per rispetto, certo, ma anche perché Forza Italia ha ancora un ruolo nella maggioranza attuale di governo e Berlusconi è ancora il riferimento ultimo di tutta quell’area politica.

Una scelta tattica determinante per scongiurare l’effetto Rodotà sulla candidatura di Prodi: il candidato dei Cinque stelle, infatti, era un nome molto vicino anche al centrosinistra e su di lui confluirono i voti di Leu, contribuendo alla sconfitta del Professore.

Invece, anche in questi ultimi giorni dell’anno arrivano lodi dai molti generali del centrodestra. Il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, ha parlato di «debito di riconoscenza nei suoi confronti da parte di tutto il centrodestra». Il leghista Massimiliano Fredriga, più cauto, lo ha comunque definito «un candidato longevo, che ha avuto una robusta esperienza di governo. Sbagliato fare esclusioni a priori».

Matteo Salvini con Massimiliano Fedriga (a sinistra) e tutti i presidenti di regione leghisti (LaPresse)

I numeri

Poi, pallottoliere alla mano, ha contato i voti che considera certi: ci sono i 129 del suo partito, più i 197 della Lega e i 58 di Fratelli d’Italia, con l’aggiunta dei 33 delegati regionali di centrodestra. Il risultato è 417 e alla maggioranza assoluta di 505 ne mancano 88.

Non un numero irraggiungibile, visto che Giovanni Toti (presente e invitato al pranzo-vertice di Villa Grande) conta 29 voti con Coraggio Italia e Maurizi Lupi (anche lui presente) ne ha altri 5 con Noi con l’Italia. Insomma, a mancare sarebbero una cinquantina di voti, che Berlusconi è sicuro di riuscire a raggranellare nel gruppo misto, in quello delle Autonomie e tra i socialisti.

Il colpaccio sarebbe convincere i 42 parlamentari di Italia Viva, e con Matteo Renzi in questo momento l’interlocutore di centrodestra è Salvini.

Insomma: la strada è stretta ma è percorribile e Berlusconi è stato certo di una cosa, a differenza di quel che fece Prodi nel 2013: sta gestendo in proprio la conta e gli abboccamenti coi singoli parlamentari. Prodi, invece, era ad un convegno internazionale quando Bersani lo chiamò per chiedergli la disponibilità.

Poi, una volta ottenuta, convocò i suoi grandi elettori al teatro Capranica di Roma per ratificare la scelta per acclamazione. Gli applausi arrivarono e così Bersani raccontò a Prodi per telefono. I voti in aula no, però: Prodi arrivò a 395 voti, 101 in meno rispetto ai 496 della coalizione di centrosinistra.

I franchi tiratori

La differenza determinante tra Berlusconi e Prodi, infatti, è che non ha ragione di temere franchi tiratori. Ha soffocato in culla (per ora) qualsiasi altro nome che avrebbe potuto orchestrare congiure contro di lui.

Si è assicurato di non dare ai suoi alleati e soprattutto ai parlamentari timorosi di non venire rieletti ragioni per temere una sua elezione. Berlusconi al Colle, per il centrodestra, è politicamente neutro: significherebbe una prosecuzione della legislatura con il premier Mario Draghi, salve reazioni inconsulte del centrosinistra, e anzi metterebbe un’ipoteca sul prossimo governo al centrodestra, che si sentirebbe molto più garantito con lui al Colle.

Inoltre, è lo stesso Berlusconi ad aver mandato i suoi parlamentari in silenziosa avanscoperta negli anfratti grigi di Montecitorio. Come ha confidato ad alcuni collaboratori, lui considera “non improbabile” che nel segreto dell’urna anche qualche Dem e qualche Cinque stelle possa votarlo: franchi tiratori contro il loro partito, che sosterrebbero il nemico di sempre.

Tutto, sulla carta, sembrerebbe al posto giusto. In realtà, fino ad ora c’è stato solo un posizionamento sulla linea del via e il Cavaliere si è organizzato per arrivarci al meglio.

Dalla prima settimana di gennaio – il 10 è fissato il nuovo vertice di centrodestra per decidere il candidato e la strategia per il Colle – la corsa inizia per davvero. E allora il gioco rischia di saltare. Come fu Rodotà per Prodi, anche Berlusconi ha un nemico interno contro cui non ha armi per combattere: Mario Draghi. Il premier ha detto in modo chiaro che non è immaginabile una maggioranza divisa sul Colle.

Tradotto: se il candidato non fosse condiviso, rischia di saltare anche il governo. Con il risultato che, tra i vari scenari, c’è anche quello di una proposta di mediazione con la Lega, proponendo una rosa di nomi condivisa per non spaccare il parlamento, a cui anche Forza Italia potrebbe dover capitolare. E in questa rosa il nome di Draghi potrebbe anche esserci, quello di Berlusconi certamente no.

Tanta fatica sprecata, allora? In politica raccogliere voti non è mai inutile, soprattutto nel caso in cui Draghi venisse eletto e si dovesse votare la fiducia a un nuovo governo.

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