Pierluigi Castagnetti è stato deputato della Democrazia cristiana dal 1987 al 1994. Con Mino Martinazzoli ha partecipato alla costituzione del Partito popolare italiano (Ppi) di cui è stato, dal 1999 al 2002, segretario nazionale. Nell’ottobre del 2000 è stato tra i promotori della Margherita. Rieletto deputato nel 2001, è stato capogruppo della Margherita. Vicepresidente della Camera dal 2006 al 2008, nel 2018 è stato insignito del titolo di Cavaliere di Gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.


Pierluigi, temo sia inevitabile che il dialogo tra noi si concentri sulla politica, ma possiamo prenderci l’impegno a non precipitare nella cronaca. E allora lasciami scomodare la lezione di Max Weber, gennaio 1919, su La politica come professione e quell’appello a distinguere tra vivere «di» o «per» la politica. Lui gettava i semi di riflessioni destinate a marcare il secolo: il legame tra tecnica e democrazia, tra governo e parlamenti, la nozione di carisma. Descriveva la tensione tra polarità diverse e tutto nella direzione di un bilanciamento tra l’etica della convinzione e un principio di responsabilità. Se ti chiedo di alzare lo sguardo su di noi, sull’Italia di ora, diresti che quel patrimonio (il vivere “per”) è andato del tutto disperso o intravedi la radice di una ricostruzione del senso profondo dell’agire politico?

Ti darò due risposte, forse non proprio lineari, ma che rappresentano il mio stato d’animo diviso di fronte alla politica di oggi. La prima: mi sforzo di non essere pessimista e dico che il patrimonio ideale di cui parli forse non è andato del tutto disperso. Nel senso che entrambi sappiamo bene che, al di là dello spettacolo piuttosto deprimente che la politica oggi riesce a mettere in scena, ci sono attori di qualità soggettiva eccellente, anche se faticano a emergere. Faticano non tanto perché non hanno memoria di ciò che è stata la politica ieri, ma perché non hanno idea di cosa possa essere oggi e ancor meno domani. E senza un’idea di futuro anche i grandi padri della Repubblica non sarebbero stati tali.

Quanto alle suggestioni di Weber, mi rimandano a tante discussioni a cena nella trattoria romana “da Settimio” fra alcuni colleghi “fuorisede”. Bobo Ruffilli e Beniamino Andreatta contestavano la tesi della politica come professione, mentre Guido Bodrato e Pietro Scoppola erano favorevoli, e citavano Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti e Pietro Nenni che, senza imbarazzo, rivendicavano la loro scelta di essere professionisti della politica, sentendo di averne la vocazione, cioè l’attitudine (berufung). Che a mio avviso deve consistere in un’intelligenza degli eventi come la chiamava Aldo Moro, e intelligenza della storia come preferiva chiamarla Giuseppe Dossetti, in una esplicita disponibilità a studiare situazioni e dossier, in un evidente «distacco interiore» come dicono i credenti evocando la Lettera a Diogneto. “Vivere per”, secondo me implica il possesso di queste caratteristiche.

Ma, soprattutto, richiede – e vengo alla seconda risposta che do alla tua domanda – un’idea di futuro. Qui sta il problema. Si può avere un’idea di futuro senza una cultura, senza una Weltanschauung? Dopo la fine delle ideologie quali sono le culture oggi in campo? E allora chiedo io a te, siamo sicuri che vi sia ancora interesse a questo nostro modo di riflettere sulla politica da parte di un mondo che è cambiato radicalmente e che, spesso, anche se con significative eccezioni, non crede più all’utilità della politica? Cito ancora Dossetti che anni fa parlava di «esaurimento delle culture».

Di tutte le culture del Novecento. Siamo tutti immobili, aggiungeva, laici e credenti, fissi su un presente che «si cerca di rabberciare in qualche misura», ma senza la consapevolezza della profondità del cambiamento.

La cultura, l’economia, il sistema delle comunicazioni, tutti siamo interpellati, ma più di tutti è la politica a essere sfidata a cercare quantomeno di capire quali siano i processi in atto per agire di conseguenza. Globalizzazione e rivoluzione digitale hanno già cambiato la qualità antropologica delle nostre società e noi continuiamo a ragionare come se non fosse accaduto.

Ricordo tante discussioni a cena nella trattoria romana “da Settimio” fra alcuni colleghi “fuorisede”. Bobo Ruffilli e Beniamino Andreatta contestavano la tesi della politica come professione, mentre Guido Bodrato e Pietro Scoppola erano favorevoli, e citavano Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti e Pietro Nenni che, senza imbarazzo, rivendicavano la loro scelta di essere professionisti della politica, sentendo di averne la vocazione, cioè l’attitudine

Ti propongo un balzo di tempo e di genere. L’anno è il 1963 e sugli schermi arriva un capolavoro di Francesco Rosi, Le mani sulla città. La sceneggiatura, oltre a Rosi, contava su Raffaele La Capria e Enzo Forcella. La storia è quella: De Angelis (Salvo Randone) è il sindaco della città, Nottola (Rod Steiger) un palazzinaro corrotto. C’è una scena del film dove Balsamo, un brav’uomo integro e onesto, va a casa di De Angelis per comunicargli la decisione di ritirare la sua candidatura dal consiglio comunale e il motivo è che non accetta di stare nella lista con Nottola. Allora De Angelis gli spiega che è un errore fare di una «questione politica» una «questione morale». Ma è la sua ultima battuta a chiudere la conversazione e, più o meno, suona così: «Ma poi lo sa qual è la sola vera colpa in politica? È essere sconfitti». È un dialogo formidabile scritto quasi sessant’anni fa. Dietro quel dialogo c’era e c’è il capitolo di quale debba essere il limite della politica nel perseguire il consenso. Quanto la necessità di calpestare i tuoi principi si giustifica con l’argomento del controllo del potere o dell’evitare che quello stesso potere cada in mani che si ritengono pericolose? O se preferisci, dove collochi la linea che demarca il “moralismo” da una concezione etica dell’agire politico?

È un film che per ragioni anagrafiche ho potuto vedere nel momento in cui è uscito, e farci anche qualche cineforum, come si usava allora. Personalmente credo che la moralità della politica si debba misurare su entrambi i piani: quello soggettivo degli operatori e quello oggettivo. Mi pare di ricordare, tu sicuramente meglio di me, che nella quarta della tessera di iscrizione al Pci ci fosse scritto che il militante avrebbe dovuto essere «cittadino esemplare». Mi sembra tutto.

Per la mia tradizione posso ricordare un pensiero di uno dei maggiori filosofi del diritto, Giuseppe Capograssi: «È assolutamente necessario essere persuasi che ognuno di noi, che uno qualunque di noi, può, se riesce a salvare l’umanità in sé stesso, vincere veramente il male e salvare la storia». Come vedi, io credo che la moralità pubblica abbia molto a che fare con quella privata. Però so che la politica non è il luogo eletto per la mera testimonianza dei propri convincimenti, ma per l’azione, che non significa assenza di valori, né, come sosteneva Machiavelli, che la politica debba essere separata dalla morale, altrimenti ha ragione De Angelis. Che, per la verità, non ha tutti i torti, perché è vero che chi fa politica la fa per vincere, cioè per avere i consensi per governare e poter realizzare il progetto su cui ha chiesto il consenso. Ma non a tutti i costi.

Io ho sempre collocato la linea di confine sul progetto politico: se per avere il consenso di un elettore discutibile debbo cambiarlo, allora no. In particolare ho sempre eretto una barriera verso mafiosi e fascisti. E, peraltro, sono convinto che la moralità in politica debba essere perseguita non con sermoni e anatemi, ma con le regole e con istituzioni efficienti. I nostri peccati di omissione riguardo al funzionamento delle istituzioni sono imperdonabili.

1988 Roma, sede della Democrazia Cristiana, Pierluigi Castagnetti e Sergio Mattarella

Con Gabriella Caramore abbiamo ragionato sul legame tra profezia e contemporaneità. Da lì il discorso è piegato sul pontificato di Bergoglio. Con te mi piace ricondurlo a una dimensione più terrena e mi torna utile una bella formula di Bruno de Finetti, intellettuale e matematico. Diceva: «Occorre pensare in termini di utopia, perché ritenere di poter affrontare efficacemente i problemi in maniera diversa è ridicola utopia». Assumendo l’occidente come riferimento riesci a scorgere una qualche radice utopica nel pensiero politico contemporaneo?

No, purtroppo no. Fatico anzi a rinvenire anche solo qualche aspirazione ad avere un’idea di futuro. Ho già detto dell’esaurimento delle culture. Personalmente sarei anche disponibile a convivere con questa condizione di povertà culturale, se solo si manifestasse la consapevolezza e la volontà di superarla. In questo senso, vado oltre Caramore, e dico che mi rallegro del magistero delle parole e dei gesti di papa Francesco. Da più parti gli si contesta un supposto scarso spessore dottrinario.

Certamente ha caratteristiche diverse dal suo predecessore, ma a me pare sia dotato di un senso della storia, una teologia della storia, particolarmente originali e preziosi. E, in ogni caso, il suo magistero rivela una lunga e profonda riflessione sulla chiesa e sul mondo, che sta destando molto interesse negli studiosi di teologia. Un magistero sul quale si sta studiando e scrivendo più di ogni altro papa. Penso alla collana di undici volumi curata da Roberto Repole, all’analoga collana curata da Pierangelo Sequeri e Maurizio Gronchi, ai testi di Ghislain Lafont, di Walter Kasper, di Kurt Appel e Jakob Deibl e altri ancora.

Non possiamo dire che il suo magistero abbia supplito all’esaurimento delle culture di cui dicevo, ma ha assolto sicuramente una sorta di missione oftalmica, ha tolto le cataratte dagli occhi dell’uomo moderno, in particolare dei responsabili della politica, perché riescano a vedere ciò che non vedono, introducendo ad esempio la categoria rivoluzionaria in economia dello «scarto», o quella dell’«ecologia integrale» che ha rivoluzionato le precedenti culture ambientaliste, o della «fraternità» nel mondo globalizzato con cui ha denunciato i limiti delle culture di derivazione illuministica. Insomma una serie di materiali preziosi per tessere un pensiero e una proposta più organica di orientamento di un mondo e un’umanità smarriti. C’è la teologia, l’utopia, ma anche la politica.

Mi rallegro del magistero delle parole e dei gesti di papa Francesco. Da più parti gli si contesta un supposto scarso spessore dottrinario. Certamente ha caratteristiche diverse dal suo predecessore, ma a me pare sia dotato di un senso della storia, una teologia della storia, particolarmente originali e preziosi. E, in ogni caso, il suo magistero rivela una lunga e profonda riflessione sulla chiesa e sul mondo, che sta destando molto interesse negli studiosi di teologia.

Sull’Illuminismo mi piacerebbe aprire un capitolo a sé, ma ti porto invece all’attualità della pandemia e dintorni e faccio mia una sintesi del filosofo Roberto Esposito, «a congiungere istituzioni, società e politica è la funzione del conflitto». Se ripenso agli anni Settanta e a una stagione di riforme che ha mutato la nostra Costituzione materiale mi viene da pensare che avere rimosso questo principio è stata una delle cause della crisi della sinistra e, al fondo, della democrazia. Dopotutto è un po’ quanto dicevi tu, avere archiviato le vecchie culture politiche senza preoccuparsi di colmare quel vuoto. A quel punto perseguire la via del governo è diventato il fine ultimo, ma per conseguirlo si è sacrificata una lettura dei processi sociali che si innescavano. Ti chiedo se condividi questa ricostruzione e se, invece, non ti convince quale radice vedi nella crisi della rappresentanza?

Mi convince sì e no e mi spiego. Le riforme degli anni Settanta sono frutto certamente di molte spinte conflittuali, figurati se possiamo dimenticare quelle piazze. Poi, in quel decennio c’è stato molto di più, in Italia c’è stata una sorta di guerra civile: tra terrorismo e stragismo abbiamo contato più di trecento vittime.

Ma soffermiamoci sul protagonismo non violento della società civile attorno alle tematiche dei diritti soggettivi (divorzio, aborto, smantellamento dei manicomi), veramente straordinario. Pensa che Moro nel 1969 parlava di prevedibile «rivoluzione femminile» quando pochi lo facevano e, comunque, non usavano quell’espressione “rivoluzione”, sconcertando Tina Anselmi, Maria Eletta Martini e Franca Falcucci che pure gli erano vicine politicamente. Ma la domanda è: tutti quei cambiamenti sono frutto del conflitto o non piuttosto della convergenza delle forze popolari? Capisco che si può sostenere che la seconda è stata la conseguenza del primo, ma insomma, discutiamone.

Il punto è che oggi i paradigmi della politica sono del tutto diversi. Senza l’accettazione della sfida della governabilità la sinistra non sarebbe arrivata al governo e l’Italia avrebbe pagato prezzi esosi. Già ieri, ma ancor meno oggi, governabilità e rappresentanza non possono essere letti in contrapposizione. La sinistra, a mio avviso, deve allargare l’orizzonte e guardare il mondo nuovo che ha cambiato i suoi equilibri, fra potenze e potenze, popoli e popoli, mercati e mercati, con effetti che ci investono. È in atto un rimescolamento enorme che porta miliardi di persone tenute come paria per secoli a prendere, a pretendere giustamente la parola.

Questi popoli non sono dotati delle nostre culture politiche che anzi, spesso, non capiscono e creano a loro volta problemi di comprensione in noi, che siamo costretti a entrare in giochi nuovi e complessi perché, se ne restassimo fuori, come singoli paesi e come Europa, pagheremo prezzi pesantissimi.

Dobbiamo cogliere gli aspetti positivi di queste novità. Questi “ultimi del mondo” ci portano in casa valori nuovi, pensieri nuovi, culture nuove e, ciò che per me è molto importante, quel senso del limite di cui tutto l’occidente ha bisogno. Purtroppo l’eresia e il delirio di onnipotenza del moderno si sono troppo a lungo manifestati con la negazione del limite, come valore costitutivo della libertà stessa. I flussi inarrestabili di immigrati che arrivano da ogni parte del pianeta, avendo affrontato inenarrabili traversie e lutti, parcheggiandosi oggi ai confini dell’Unione europea che cincischia a farli entrare perché non ha una strategia al riguardo ci insegnano qual è il perimetro del futuro possibile e prevedibile.

La sinistra non può continuare a “non vedere” e a rifiutare di darsi un pensiero e una strategia di cambiamento del suo stesso modo di stare dentro le dinamiche del mondo. La sinistra che ha appena vinto le elezioni in Cile (sempre il Cile ritorna) con discorsi che hanno allargato il suo tradizionale orizzonte, ci indica la direzione del futuro.

Rimaniamo un istante sulla crisi della democrazia e vediamola dal lato di un astensionismo crescente, votano sempre meno persone, ma senza rappresentanza effettiva i poteri costituiti perdono la legittimazione a governare in nome del popolo. Le cause di questo divorzio le conosciamo: la liquefazione dei partiti; una personalizzazione esasperata; il primato dell’esecutivo nella legislazione; una perdita di etica collettiva (ricordi il bonus Covid chiesto da alcuni deputati?) e soprattutto una separazione tra politica e società. L’esito, rubo la formula a Gaetano Azzariti, è stato che in Italia, nell’ultimo ventennio si è pericolosamente oscillato tra due estremi: una tecnica senza umanità o una politica senza pudore. Forse il credo laico di questa impostazione si è riassunto nel taglio dei costi (dal finanziamento pubblico alla cesoia del referendum sulla riduzione di un terzo dei parlamentari): qui è esplosa la profondità della crisi culturale che investe la politica e le istituzioni (sul punto non possiamo dire di essere innocenti!). La domanda è diretta: quale terapia applicheresti per aggredire tutto questo? 

La mia risposta ti potrà sembrare impolitica, perché non è prioritariamente di tipo istituzionale, contraddicendo in una qualche misura il mio passato di parlamentare che per due legislature si è battuto invano per disciplinare l’art. 49, quello riguardante la funzione dei partiti. Penso oggi che occorra lavorare soprattutto a livello della società. A partire dalla scuola, cui lo stato affida la missione di formare i nuovi cittadini. Non però con un’educazione civica affidata un po’ casualmente a insegnanti che non sono stati preparati e nei ritagli di tempo di programmi che continuano a non prevederla.

Penso che la democrazia non sia solo un sistema di garanzie giuridiche, ma una mentalità, è la custodia di una memoria collettiva di tutti coloro e di tutto ciò che è servito in passato a gestire i conflitti sociali, a costruire condizioni di convivenza e solidarietà, a riconoscere le esigenze di velocità ma pure il valore della lentezza nel senso del ritmo a misura della persona umana. Insomma la comunità educante non è solo un corso di formazione o il buon funzionamento della scuola, pure necessari: è il buon funzionamento della società.

È il rispetto delle regole, il semaforo che funziona, la pensilina non rotta per chi aspetta il tram, la gentilezza dell’impiegato dell’anagrafe. Tutto questo serve a crescere cittadini che si sentono tali, e che alle elezioni non si lasciano scappare l’occasione. Si badi bene, non sto parlando del buonismo amministrativo. Sto parlando del genoma del legame sociale che si è trasformato e della quantità di persone in difficoltà che segna un cambio epocale rispetto al secolo scorso. Quella società dei due terzi su cui si è riorganizzato il pensiero della sinistra fino a venticinque anni fa non c’è più. Una quantità enorme delle persone oggi non ce la fa. Non ce la fa psicologicamente (nel 2006 il libro Verde dell’Ue segnalava che un quarto degli europei soffriva di disturbi psichici). Non ce la fa socialmente perché le reti sociali e familiari si sono sbriciolate.

È di questa vita nascosta che la politica, che i democratici debbono tornare a occuparsi, ascoltando sofferenze e idee nuove che l’intelligenza delle periferie non sa più a chi comunicare, perché mancano gli interlocutori. Voglio dire che, senza sottovalutare le grandi cause della trasformazione come la rivoluzione digitale che ha cambiato le regole della rappresentanza, dovremmo tornare a occuparci della soluzione dei piccoli problemi che rendono i cittadini più felici e più disponibili a tornare a votare.

03.02.2001 ROMA POLITICO PRESENTAZIONE DELLA MARGHERITA NELLA FOTO FRANCESCO RUTELLI,LAMBERTO DINI, ARTURO PARISI, PIERLUIGI CASTAGNETTI E CLEMENTE MASTELLA ©SCROBOGNA LAPRESSE

Questo anno e mezzo di pandemia, tra le altre cose, ha riportato nell’agenda politica il tema della vita e della morte. Anche per questo come dice Bergoglio, «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla». Per te cosa significa non sprecare nulla di quanto stiamo vivendo, compresa la sofferenza delle persone? Quali pensi debbano essere i primi tre bagagli culturali, valoriali, che una sinistra ripensata non può permettersi di lasciare a terra?

Ti risponderò con tre titoli. Ascoltare le lezioni che la pandemia continua a darci: «siamo tutti (cioè l’umanità intera, tutti i continenti, tutti i popoli) sulla stessa barca» come dice papa Francesco, quindi, traiamone coerentemente le conseguenze. La scienza non è cattiva, anzi, quando è al servizio dell’uomo è benedetta da Dio, è volontà di Dio (valga per quei non pochi credenti che pensano il contrario). La politica incontri e faccia incontrare le persone.

Di recente ti ho sentito porre una questione seria in merito al concetto di fine vita. Più o meno il tuo timore era di assistere al cambiamento di un modello antropologico come effetto di un suicidio assistito destinato in potenza a divenire prassi e, dunque, sulla base numerica un fenomeno di costume. Personalmente resto convinto che su materie di tale complessità debba sempre prevalere il rispetto della funzione legislativa. Quella funzione prevede che compito del legislatore non sia riversare nella norma le proprie convinzioni (etiche, religiose, filosofiche, culturali) ma cercare la sintesi che consentirà a diverse convinzioni di trovare nella legge un pieno riconoscimento a vedere preservata la propria dignità. Ecco, ritieni anche tu che il rispetto della dignità (ciò che ciascuno ritiene tale per sé) debba essere la bussola irrinunciabile del legislatore?

Si, la mia preoccupazione riguarda le possibili ricadute degli effetti della norma sul costume, sul modo di pensare dei cittadini e, dunque, sul modello antropologico conseguente. Io sono favorevole al testo di legge all’esame della Camera sul suicidio assistito. E non solo perché occorre adempiere a una sentenza della Corte costituzionale, per quanto discutibile sia il modo con cui interviene sulle prerogative parlamentari. Ciò che mi preoccupa è il discorso sull’eutanasia, oggettivamente diverso, anche se nella comunicazione si fa una certa confusione fra suicidio assistito e eutanasia.

Tengo a precisare che ho molta comprensione e compassione (nel senso di patire insieme) come dice Luigi Manconi, oltre che rispetto e solidarietà, per le persone costrette a condizioni veramente penose di sofferenza cosiddetta di “fine vita”. Quando ero in parlamento ritenevo che il legislatore avrebbe dovuto riconoscere che, come sosteneva un grande laico, filosofo del diritto, Arturo Carlo Jemolo, vi sono ambiti tematici della sfera personale che il diritto può solo lambire. Lambire è un concetto diverso da disciplinare. Per questo, anche su altri temi, come la tossicodipendenza, sono sempre stato favorevole a forme di depenalizzazione, cosa diversa dalla cancellazione del divieto.

Perché le persone debbono essere rispettate nelle loro sofferenze, nelle loro fragilità e, soprattutto, nella loro dignità di cui sono i soli custodi e giudici. Lo dico essendo cristiano e ben conoscendo una certa attitudine alle prescrizioni della chiesa. «Chi sono io per giudicare?».  Ma, per tornare alla nostra questione, pensiamo all’ampia gamma delle terapie palliative e agli effetti di quelle più propriamente sedative che possono avvicinare il momento della morte. Qual è il confine? Mi parrebbe assurdo che la legge pretendesse di definirlo. Ma l’eutanasia è un’altra cosaci è lo stato che, seppure su richiesta, dà la morte, cioè toglie la vita.

Si determina un salto, una lesione in quel presupposto valoriale condiviso sul tema della sacralità della vita, che ha ispirato la nostra Costituzione e tenuto unito per settantacinque anni il paese. L’eutanasia realizza un nuovo modo di pensare la vita, che può diventare costume. La dignità della persona, tu dici giustamente. Io sono d’accordo. Ma in quell’idea di dignità che ogni persona definisce per sé, mi chiedo quanto influisca un condizionamento culturale per cui il soggetto ritiene di non dover più continuare a vivere perché non è più “utile”, cioè ha smesso di produrre, o ritiene di non voler “pesare” sui familiari o sullo stato. In questo caso, perché lo stato, che dovrebbe sempre mostrare quel suo “volto umano” di cui parlava Moro, dovrebbe rinunciare ad adoperarsi per rimuovere un simile condizionamento psicologico? L’art. 3 della Costituzione parla anche di questo.

Lo scorso anno in Olanda i morti “eutanasizzati” sono stati settemila, su una popolazione inferiore ai quindici milioni di abitanti. In soli cinque anni la regola è diventata costume. Quegli stessi numeri trasposti in Italia porterebbero a una previsione di trentamila morti per eutanasia l’anno. Insomma, io pongo il problema di posare lo sguardo sugli effetti sistemici di un simile intervento. E lo faccio, lo ribadisco, volendo parlare della dignità della vita e della dignità della morte di chi la volesse scegliere.

Qualche tempo fa Luciana Castellina mi ha raccontato di quando chiesero a Jean Paul Sartre cosa fosse per lui il Pci, rispose: «Il Pci è l’Italia». Intendeva che in quella forza convergevano interessi, bisogni, soggetti espressione rilevante del paese. Che poi credo fosse l’accezione che Alfredo Reichlin dava del «partito della nazione». Lo chiedo a te con la stessa formula mutuata: Nella storia repubblicana cosa è stata la Dc? Diresti che “i democristiani” hanno vinto perché nei fatti governano ancora (anche dentro il partito nel quale militiamo entrambi)?

Personalmente penso che quel giudizio di Sartre fosse più calzante per la Dc. Io a quella domanda avrei risposto che il Pci era un popolo, il suo popolo, che a sua volta era parte importante, forse in quel senso la più importante, del popolo italiano. Perché la Dc non è mai stata un popolo distinto, non voglio dire separato, ma distinto come certamente fu per un lungo periodo il Pci.

Così come non direi che la Dc ha vinto, ma che quella tradizione politica fondata sull’Europa e l’economia sociale di mercato sì, ha vinto. E governa anche oggi, con personale che proviene direttamente dalla Dc e personale che quell’esperienza storica non ha fatto, ma quelle idee condivide. Anche se quelle idee come ho detto oggi non bastano.

La Dc non è mai stata un popolo distinto, non voglio dire separato, ma distinto come certamente fu per un lungo periodo il Pci. Così come non direi che la Dc ha vinto, ma che quella tradizione politica fondata sull’Europa e l’economia sociale di mercato sì, ha vinto.

In un bel saggio uscito da poco (Il vento conservatore. La destra populista all’assalto della democrazia), Giorgia Serughetti, descrive l’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio di quest’anno con queste parole, «una folla composta da veterani e poliziotti, commercianti e imprenditori, artigiani, disoccupati e studenti provenienti da almeno 36 stati, quasi tutti bianchi, lanciano il loro assalto al tempio della democrazia americana. Lo slogan è “We will never give up” (Non ci arrenderemo mai)». La definisce una rivolta dell’identità. La differenza è che a partire dagli anni ‘60 la rivendicazione dell’identità era in prevalenza appannaggio di minoranze che chiedevano di essere incluse nel processo democratico; oggi la nuova politica dell’identità rappresenta istanze di gruppi maggioritari che non chiedono di essere inclusi, ma di essere riconosciuti come l’unico “vero” popolo o nazione e di escludere altri gruppi dall’accesso a pari diritti civili, politici e sociali. È questa la radice di un nuovo conservatorismo morale e religioso? E leggi anche tu con queste lenti la nuova destra in Italia e in Europa?

«Non ci arrenderemo mai». Sono parole che ascoltiamo nelle piazze e nei social anche in Italia. Non voglio scivolare nell’errore di paragonare questi messaggi ai tanti «boia chi molla» dei decenni scorsi. No, è qualcosa di nuovo e di diverso, è in parte anche la manifestazione di un malessere sociale per le ragioni già dette, che attraversa molte società occidentali compresa la nostra.

Mi limito a osservare che siamo entrati in quell’«età dello smarrimento» di cui parla nel suo ultimo libro Christopher Bollas. Stanno emergendo varie forme di spaesamento, una paura per un cambiamento che si ritiene ineludibile, ma che si vorrebbe impedire con ogni mezzo, assieme a un tentativo estremo di rifugiarsi nelle proprie varie identità – territoriali, politiche, “razziali” e religiose – alla ricerca di un gruppo che ti assicuri qualche forma di protezione perché formato da altri uguali a te e che, pensando i tuoi stessi pensieri, ti assicurano di essere dalla parte giusta, e così finisci per detestare e poi odiare chi pensa diversamente. Evocando un testo a noi caro, potremmo dire che il bersaglio sono prima di tutto gli immigrati, poi gli islamici, poi i pro vax, poi i “bergogliani” (assunti come simbolo di una presunta resa culturale e religiosa, soprattutto in America), poi il resto dell’Europa, poi il resto degli italiani, poi, poi…Cresce l’intolleranza per il diverso da sé, persino l’insopportazione fisica. Il linguaggio è necessariamente quello greve e volgare capace di trasmettere questi stati d’animo.

Le società diventano oggettivamente ingovernabili, perché questi movimenti più o meno spontanei hanno proprio come obiettivo quello di spaccarle e sottrarle a una possibilità di governo che non sia la loro. Anche per queste ragioni ho parlato della necessità di un ritorno della sinistra nel rasoterra del paese, perché è lì che con pazienza e intelligenza occorre cominciare a intervenire, ben sapendo che le cause profonde trascendono le singole realtà locali. Ma la realtà va conosciuta, studiata con rigore e costanza, ben sapendo, cito ancora papa Francesco, che «la realtà è più importante dell’idea».

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