All’ombra dell’elezione del Quirinale si sta giocando una partita a carte, piena di bluff, ammiccamenti, accelerazioni, frenate improvvise, con l’unica bussola determinate degli interessi dei singoli partiti.

È quella che riguarda la riforma dei regolamenti di Camera e Senato nel futuro parlamento, che cambierà completamente forma con la riduzione del numero di deputati e senatori.

La Lega, convinta di avere insieme al resto del centrodestra la maggioranza dopo le prossime elezioni, vuole mettere al sicuro Palazzo Madama che tradizionalmente ha numeri più incerti, il Pd ha presentato una proposta per evitare che il campo largo di Enrico Letta si sfracelli come l’Ulivo, il Movimento 5 stelle è minacciato da una norma ani espulsioni e si vuole tutelare dallo stillicidio di addii.

Una partita a carte senza mazziere che maschera tatticismi e convenienze dietro un celebre e vecchio pretesto: eliminare il trasformismo. L’obiettivo è quello di depotenziare il gruppo misto che, almeno sul finire di questa legislatura, rischia di essere un “partito” che conta quasi se non più degli attori riconosciuti e riconoscibili. Farlo ora perché il prossimo futuro sia meno incerto.

Fritto misto all’italiana

Politicamente Pd e M5s da una parte, centrodestra dall’altra, sanno che con la nuova legislatura transfughi, scissioni, rimodellamenti di gruppi volatili e pieni di anime perse, depotenziando i partiti, avrebbe un costo altissimo. Da Enrico Letta a Giuseppe Conte, passando per Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, sanno che diventerà un imperativo kantiano contenere le emorragie che hanno contraddistinto i gruppi negli ultimi tre decenni. I primi vogliono consolidare la propria alleanza, indietro nei sondaggi, i secondi invece puntano a non avere sorprese nel prossimo parlamento.

La strategia, quindi, è di utilizzare la riforma dei regolamenti per tamponare il dissenso interno, introducendo norme per scoraggiare i cambi di casacca, rendere più difficili le espulsioni di grilliana memoria e punendo chi vuole andarsene tagliandogli lo stipendio. L’equazione è facile: in un emiciclo con la metà dei componenti, ogni addio varrà doppio.

Le giunte del regolamento di Camera e Senato quindi si sono messe a lavorare, dopo mesi di silenzio. Ma le riforme che si apprestano ad arrivare sono un fritto misto all’italiana, in cui le forze politiche, incapaci di cambiare al loro interno e risolvere una volta per tutte il problema più generale del funzionamento della macchina istituzionale, si accapigliano sulle minuzie e sui cavilli, cercando di coltivare il proprio orticello d’interessi.

Una riforma va fatta

I partiti arrivano quasi tutti malconci alla prova della riduzione del numero dei parlamentari, decisa da loro stessi (sotto l’egida del Movimento 5 stelle) e ratificata dal referendum del 2019. Con la riforma non può più funzionare una macchina studiata per 945 rappresentanti quando tra gli scranni ne sederanno solo 600, e se fino a ora erano dolori, domani le uscite, opportunistiche o meno, di manciate di parlamentari potrebbero far crollare intere coalizioni. I partiti lo sanno, per questo nelle maglie della necessità di rivedere le regole del parlamento provano a infilare gli interessi di parte.

Dal voto referendario, per due anni, i parlamentari si sono limitati a presentare le loro proposte di legge, sonnecchiando in attesa che qualcosa li solleticasse. Il voto del Quirinale ha fatto probabilmente sentire la fine più vicina. Al Senato i relatori, Vincenzo Santangelo (M5s) e Roberto Calderoli (Lega), hanno impiegato ben dodici mesi per modificare poco più di venti articoli su un totale di 167, quanti sono quelli del regolamento interno. Meno di dieci sono quelli rivisti a livello sostanziale.

La giunta del regolamento si è riunita poche volte e per lo più per parlare dell’annoso problema del gruppo Misto, mentre non si è praticamente mai discusso di una riforma complessiva del parlamento, nonostante sono gli stessi rappresentanti a lamentarsi da anni dei suoi meccanismi farraginosi e di un’esagerato interventismo da parte del governo che gli attuali regolamenti non riescono a limitare.

Le modifiche di Palazzo Madama non sono state ancora formalmente approvate; è stata messa a punto solo una bozza di testo che prevede, tra le altre cose, una revisione dei quorum delle commissioni, gli organi dove passano le singole leggi prima di arrivare in aula. Diventerà difficile collocare i senatori in numero ridotto proporzionalmente in 14 commissioni, tante sono ora. Scenderanno quindi a dieci. Non sono mancati litigi stonati sulle singole materie da assegnare a questi organi, in primis la collocazione delle “politiche dell’Unione europea”. Tutto si è risolto lasciando la commissione così come è ora.

Le Lega blinda il Senato

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La Camera alta, per il minor numero di componenti, è quella potenzialmente dai numeri più ballerini. Non è un caso che la Lega abbia affidato la regia delle nuove regole a Calderoli, conoscitore e manipolatore dei meccanismi di Palazzo Madama, con il mandato di blindare la futura maggioranza.

Chi si troverà con incarichi di vertice, presidente di commissione, segretario d’aula o vice presidente del Senato, nel momento in cui cambierà partito decadrà dall’incarico. Questa proposta dovrebbe rappresentare un disincentivo a livello economico tenendo conto che chi assume ruoli riceve anche importanti indennità economiche.

Inoltre, secondo la bozza, chi volta le spalle al partito durante la legislatura non potrà più andare nel Misto, ma finirà in un gruppo creato per raccogliere le anime perdute. Si chiamerà il gruppo dei non iscritti, un po’ sulla falsariga di quello del parlamento europeo.

A loro dovrebbe rimanere il rimborso spese di oltre 4mila euro, mentre a coloro che decideranno di confluire in un partito diverso da quello di elezione non verrà riconosciuto. I transfughi si vedranno tuttavia togliere in ogni caso la quota mensile prevista per pagare i collaboratori e portaborse, quindi meno staff e meno uffici. In questo modo, anche per i gruppi di approdo non sarà conveniente accogliere nuovi inquilini visto che non porteranno una dote economica. Insomma, si scoraggia la campagna acquisti. «La riforma dovrebbe essere votata dalla giunta a gennaio e poi andrà in aula», dice il relatore Santangelo. 

Incertezza a Montecitorio

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Alla Camera la situazione è più nebulosa. I relatori Emanuele Fiano (Pd) e Simone Baldelli (Forza Italia) devono ancora chiudere la bozza di testo da presentare alla giunta. «Non siamo ancora prontissimi», dice Fiano che rivendica l’impegno dei gruppi a portare a termine la riforma in tempi celeri anche se dopo l’elezione del capo dello stato.

«In questo periodo abbiamo lavorato molto, lasciando aperto il tema della ridefinizione delle commissioni, sul quale chiederemo al presidente Roberto Fico un confronto ufficiale con il Senato, che su questo ha maggiori esigenze funzionali», aggiunge Baldelli. Il testo dei relatori sarà probabilmente una sintesi delle proposte di legge presentate nei mesi scorsi dai diversi gruppi. Ma anche qui, come al Senato, l’idea di fondo è salvarsi tutti da crisi interne.

La norma “anti M5s” del Pd

Il Pd sta facendo il “lavoro sporco” per altri chiedendo l’introduzione delle norme più dure. Andrea Giorgis, deputato Pd e responsabile riforme del partito, ha presentato una serie di cambiamenti molto dettagliati con una norma, tra le altre, molto curiosa: in caso di “espulsione” di un deputato, il gruppo deve approvare la decisione a maggioranza.

Niente più Grillo di turno e collegio dei probiviri che d’imperio buttano fuori sgraditi e critici. O voti sul blog che mettono alla gogna chi polemizza. L’obiettivo è quello di imbrigliare anzitutto gli alleati scapestrati del M5s, mentre Giuseppe Conte, che al momento non controlla quasi niente e nessuno, resta in silenzio, non riuscendo nemmeno a risolvere il dilemma del doppio mandato. La norma anti espulsioni serve perché il Movimento non produca emorragie interne come avvenuto in questi anni e perché senza parlamentari compatti (o costretti a compattarsi) nella prossima legislatura ridimensionata la grande coalizione anti destra nascerebbe zoppa.

Letta e lo spettro dell’Ulivo

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Un’altra delle battaglie del Pd è quella sulle norme anti transfughi. Brucia ancora, e tanto, la scissione di Matteo Renzi. E l’idea del «campo largo» lettiano che va da Leu a Italia viva, dai Cinque stelle ad Azione di Carlo Calenda, e che potrebbe ulteriormente rimescolarsi dopo le parole di riavvicinamento pronunciate da Massimo D'Alema, esige le dovute accortezze per evitare il remake di un film già visto.

Letta tornato al Nazareno dopo l’autoesilio parigino lo ha detto chiaramente nel discorso all’assemblea che lo ha messo alla guida del partito: «Serve un nuovo Pd», che «superi le correnti» e passi per una «verifica» con i gruppi parlamentari. Le liste che hanno portato gli attuali parlamentari alle camere erano state fatte da Matteo Renzi, quindi la diffidenza è d’obbligo ancora oggi. Ma pure il futuro è incerto. Solo in questa legislatura ci sono stati quasi 270 cambi di casacca. Per questo i democratici si sono fatti promotori di una proposta per «combattere il male del trasformismo parlamentare». Dentro il palazzo «non ci si rende conto bene dell’effetto che fa il trasformismo», ha aggiunto Letta.

Secondo il segretario gli stessi partiti hanno «costruito un sistema per cui il gruppo Misto è un paradiso per chi lascia il proprio gruppo». E dunque il pacchetto comprende tra le altre cose la creazione di un gruppo dei non iscritti dalle prerogative depotenziate e l’impossibilità di costituire una componente all’interno del Misto senza collegarla a un simbolo che si è presentato alle elezioni (come è successo con Iv).

Mai più Italie vive?

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Guardando il futuro ma tenendo conto di quanto successo in passato, nessun partito, o neo partito, può dire che non avrà bisogno di un aiutino per consolidarsi. Prendiamo Italia viva, un consistente pezzo del Pd fuoriuscito per seguire Renzi. Al Senato dove le regole erano già più stringenti rispetto a quelle della Camera, i renziani hanno avuto bisogno di un simbolo, quello del Psi di Riccardo Nencini, che rappresentasse una lista tra quelle candidate alle elezioni politiche per potersi costituire.

A Montecitorio questa regola non c’è e, in futuro, per evitare un iter difficile e complicato, perché non agevolare questi casi specifici? Pronto, fatto. Il testo in preparazione alla Camera, secondo un deputato del Pd che preferisce rimanere anonimo, potrebbe contenere una norma per permettere a una pattuglia di parlamentari di formare una componente autonoma all’interno del Misto solo se fuoriusciti tutti dallo stesso gruppo.

I vantaggi sono diversi, perché le componenti hanno una loro segreteria, uffici, risorse economiche che gli permette di essere autonomi. Al Senato, invece, sempre sullo stesso tema, sembra si voglia intraprendere la via del rigore: sì alla formazione di nuove componenti, con un simbolo presentato alle elezioni, ma senza cambi di nome. Quindi il nuovo nucleo dovrà chiamarsi con il nome della lista che ha partecipato alle elezioni. Una gran confusione che ben rappresenta la poca lungimiranza che i partiti stanno mettendo in campo per riformare i regolamenti, a proprio uso e consumo.

Forza Italia si è limitata a presentare la proposta di legge meno invasiva, con l’introduzione della sola modifica dei quorum delle commissioni. Eppure nella stesura dei testi finali di riforma non si è messa di traverso. Se è verso che è  stato lo stesso Berlusconi, sia in passato sia ora con l’elezione del Quirinale, a cercare voti  nel Misto, è altrettanto vero che l’onda anomala dei fuoriusciti spaventa il leader, che dovrà gestire lo schiacciamento tra Lega e Fratelli d’Italia.

Una volta c’erano le correnti

Quelli di oggi sono i titoli di coda di un brutto film che va in onda da anni in quarta serata. Ed essendo incapaci di risolvere culturalmente una malattia politica che li tartassa, i partiti decidono di sfruttare l’occasione e intraprendere una riforma parziale di come funziona il parlamento, sottovalutando la sua importanza storica e politica, sperando che la terapia d’urto li salvi almeno dalla prognosi infausta.

Un problema vecchissimo. Lo diceva più di vent’anni fa l’ex segretario dei Democratici di sinistra, Walter Veltroni, parlando del patto che ha riconciliato nel 2000 la Lega Nord di Umberto Bossi e il Polo delle libertà di Silvio Berlusconi: «È importante avere una legge elettorale che consenta governi stabili e dia ai cittadini la facoltà di scegliere chi deve governare bloccando forme di trasformismo».

Il trasformismo è un problema che affonda le radici all’alba della seconda Repubblica. Nella prima i partiti erano in grado di assorbire al loro interno il dissenso con congressi, conte interne, luoghi di decantazione dei contrasti, il trasformismo era imbrigliato dalle correnti, male antico di un’altra epoca che tuttavia contribuiva a rendere stabile il quadro degli attori in campo.

Il manuale Cencelli, il vademecum il cui nome è riferito a un celebre funzionario della Democrazia cristiana che stabiliva come ripartire il potere in base a partiti e correnti, nasce per questo, non solo per dividere il potere di governo e sottogoverno tra i partiti, ma anche tra le correnti stesse le cui posizioni in continua evoluzione venivano garantite con la distribuzione di ministeri, poltrone e strapuntini.

Oggi i due gruppi Misti di Camera e Senato sono pieni di ex, espulsi, indecisi, aderenti a componenti minori, senatori e deputati con poche idee e pronti a spendersi per la migliore offerta, perché il potere e la sua distribuzione è appannaggio dei leader, il manuale del vecchio Dc è finito nel cestino. A Palazzo Madama se ne contano 48, a Montecitorio 66. Centoquattordici in grado, ad esempio, di spostare gli equilibri quirinalizi. Tutti i voti contano, anche quelli delle anime perse.

Da trent’anni la stessa storia

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Quando fanno comodo si chiamano “responsabili”, “costruttori”, “volenterosi” e servono per ingrassare le votazioni di fiducia che altrimenti finirebbero con un governo in meno. Nella seconda Repubblica trasformismo da prassi non consolidata è divenuta una furba consuetudine in cui di volta in volta ogni leader ricorre per i propri interessi ma che pubblicamente stigmatizza.

Giuseppe Conte, ad esempio, presidente del Consiglio del partito che più di tutti ha fatto della lotta al trasformismo una battaglia e un’arma di raccolta del consenso, quando si è trovato a vedere i numeri del suo secondo governo in bilico ha lanciato apertamente una campagna di reclutamento dei cosiddetti “responsabili”. Fallì, ma non sempre è stato così nella storia.

Gli esordi governativi di Silvio Berlusconi del 1994 segnano probabilmente uno spartiacque: il suo primo governo, infatti, nasce senza una vera maggioranza al Senato, con alcuni passaggi di gruppo e quattro senatori del Partito popolare italiano (Luigi Grillo, Stefano Cusumano, Tommaso Zanoletti e Vittorio Cecchi Gori) che uscirono dall’aula e permisero a quel governo di nascere con una maggioranza relativa. L’anno prima Giuliano Ferrara, all’epoca europarlamentare del Pse, in diretta tv su Radio Londra incitava a «liberare il paese dal trasformismo e dalla vergogna», indicando alcuni «maghi del trasformismo» e «voltagabbana».

Sempre nel 1994, il 26 febbraio, Indro Montanelli ritiene necessario dedicare al trasformismo un’intera puntata della sua trasmissione televisiva Eppur si muove. Nel 1998 Giorgio La Malfa dava la colpa al sistema elettorale: «Il maggioritario ha già fatto abbastanza guai, il fenomeno del trasformismo, le trasmigrazioni da un gruppo all’altro, anche il modo come è nato il governo sono frutti del maggioritario».

A febbraio di quell’anno l’ex premier Romano Prodi sostenne addirittura che l’Italia è rovinata «dal trasformismo», «da deputati che vanno di qua e di là. La vogliamo finire?». Un appello rimasto del tutto disatteso. Pier Ferdinando Casini da presidente di Montecitorio inaugura la XIV legislatura dicendo: «Sono fiducioso che questa legislatura non sarà minata dal male oscuro del trasformismo e che ognuno di noi siederà fino alla fine sui banchi delle proprie convinzioni politiche».

Eppure la storia ricorda anche i due anni del secondo governo Prodi, 2006-2008, in cui il Senato si trasforma in uno dei più giganteschi teatri di mercimonio della politica con la compravendita berlusconiana, prima della caduta con mortadella e champagne. Cronologicamente tra le più recenti c’è la campagna acquisti che caricò dentro al centrodestra gli ex dipietristi Antonio Razzi e Domenico Scilipoti. «Se Berlusconi me lo chiede, voto pure Totò Riina», arrivò a dire Razzi qualche anno dopo con assoluta fedeltà a Berlusconi.

Il problema è divenuto un fardello. Il Pd, nel 2012, prova a presentare un emendamento a firma del senatore Enzo De Luca per costringere ogni candidato eletto che decide di aderire ad altro partito a finire il mandato solo nel gruppo misto. La norma non passa ma il misto continua a rimanere comunque il refugium peccatorum.

E così è rimasto fino a oggi, e del doman non v’è certezza, se non quella che i partiti, nessuno escluso, fingendo di occuparsi del bene delle istituzioni, di voler risolvere una questione morale di cui sono unici ed esclusivi responsabili, continuano a muoversi guidati dall’unica grande bussola dell’interesse del momento.

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