Sono sessiste e ingiuste le ironie sulle sue mascherine anticovid sempre vistosamente in tinta con il tailleur. Sono sessiste ma giuste le prese per i fondelli reperibili a valanga in rete in calce ai video delle sue epiche sfuriate, fulmini saette e ancor più spesso gaffe scagliate dal più alto scranno di palazzo Madama; memorabile la papera che le scappò davanti ai giornalisti, luglio del 2021, quando – a fin di bene, per carità – sostenne che «il lavoro rende liberi», discorso misteriosamente sbianchettato dagli archivi del Senato. L’avvocata Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, è vittima innocente delle prime e vittima colpevole delle seconde.

Nella storia parlamentare antica e recente non sono mancati i momenti di tensione e anche di vera rissa nell’aula che per i governi dal 1994 a oggi è stata la valle di lacrime della maggioranza di turno (per ricordarne uno, il più famoso: «Togliete quella bottiglia, non stiamo mica all’osteria», dovette intimare il compianto Franco Marini il 24 gennaio del 2008 quando cadde il governo Prodi in mezzo al tifo da stadio delle opposizioni e da sotto i banchi della destra Nino Strano, inforcati occhiali neri, tirò fuori mortadella e spumante per festeggiare la fine del Professore). 

«Siete qua come pupazzi»

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Il fatto è che a lei, la presidente forzista eletta nel marzo del 2018 perché l’allora compagno di partito Paolo Romani aveva qualche indagine a carico  – e che preferisce essere chiamata “il” presidente ma noi non l’accontenteremo – , anche la situazione più tranquilla finisce per ingarbugliarsi e sfuggire di mano. Con i senatori e le senatrici. Preferibilmente con le senatrici.

Ogni contestazione le appare una lesione dell’autorevolezza dell’istituzione che rappresenta, più che della sua persona. E così la pazienza le scappa facile. E così le sgorgano frasi colleriche, poco consone a una seconda carica dello stato alle prese con gli effervescenti ma adulti rappresentanti del popolo.

 «Stia seduto! Se lei parla fuori microfono abbia la cortesia di tacere tanto non la sento», «Senatore, lei è un grande maleducato. Non si fanno gesti alla presidenza», «Lei è ammonito. È censurato, e tra un po’ la allontano dall’aula», «Fuori lo posso dire soltanto io, e nessun altro», «Basta, smettete di urlare», «La capigruppo la decido io, e ho già deciso».

E ancora: «Chi sta fotografando? Siete qua come pupazzi o me lo volete dire per Dio», quest’ultima imprecazione risultò particolarmente fuori posto visto che non si rivolgeva a forsennati senatori ma alla temibile Elisabetta Serafin, segretaria generale del Senato della Repubblica, prima donna in quel ruolo e signora potenza di palazzo Madama, benché oggi in dirittura di pensione. La quale da par suo accusò il colpo con gelida compostezza. Così marcando una distanza abissale.

Femminista a modo suo

Memorabile un altro suo scontro, dicembre del 2018, con quella che poi diventerà la ministra dell’Agricoltura del governo giallorosso, e poi alleata di Forza Italia nel governo Draghi: «Senatrice Bellanova, lei disturba continuamente l’aula». E l’altra, di getto: «E lei, prima presidente donna di questa importante istituzione, usa il linguaggio machista di una cultura poco democratica».

L’attivismo femminile l’ha convinta a dire sì alla castrazione chimica. Non solo. Con buona pace del premio «Donna tutto l’anno» che la presidente ha appena meritato e ricevuto con solenne cerimonia a palazzo Giustiniani, e del suo esibito impegno di madrina di attivismo femminile, chi frequenta le riunioni dei capigruppo racconta che i signori partecipanti sono tutti presidenti («Presidente Marcucci, presidente Romeo, senatore Faraone»), e invece le signore hanno solo il cognome.

Nemiche e amiche, tutte sorelle nel rispondere con ironia a quel filino di misoginia affiorante. Come quella volta che in aula parlando di fecondazione assistita spiegò che «l’Italia è piena di figli dell’eterologa perché frutto del rapporto di una donna col lattaio di turno». Dio sa quale fantasia era dietro a quell’immagine procace. 

Mamma mia

Marco Merlini

Ma certo mamma, è molto mamma la prestigiosa avvocata di Padova, matrimonialista di lusso con clienti come il calciatore Stefano Bettarini e il regista Gabriele Muccino, ex sottosegretaria alla giustizia e docente di diritto canonico, autrice di due saggi, uno sull’«indissolubilità dell’istituto naturale del matrimonio canonico» e l’altro sull’«educazione dei figli nell’ordinamento canonico».

Così mamma che nel 2005 ha voluto assumere sua figlia Ludovica nella sua segreteria, lei all’epoca sottosegretaria alla Salute. «A quei tempi mia mamma non si fidava di nessuno», ha spiegato poi la beneficiata da tanto anche materiale affetto.

Anche per il figlio Alvise, avvocato poi direttore d’orchestra, mamma c’è sempre stata. Il maestro è stato oggetto delle attenzioni dell’Espresso per le sue prestazioni richieste «in particolare dall’Istituto italiano di cultura di New York». 

Altre testate raccontano una fitta «diplomazia culturale» della presidente del senato proprio nei luoghi in cui il maestro Alvise si esibisce, da Baku a Mosca. Nel 2018, fresca di elezione, il Fatto Quotidiano la “pizzica” negli Stati Uniti  per una visita ufficiale fra Washington e New York. Ma qui interessano le sue attenzioni di genitrice: la coincidenza è che in quei giorni Alvise si esibisce al Central Park di New York. La sua mamma è in platea.

In volo contro il Covid

Repubblica invece viene in possesso del registro di volo del Falcon 900 dell’aeronautica che la presidente può usare senza autorizzazione preventiva. E lo usa 124 volte in un anno, dall’aprile del 2020, in piena pandemia, 97 sulla rotta Roma-Venezia, per andare a casa – lei vive a Padova – e 6 ad Alghero, la splendida città dei Caraibi italiani, meta preferita per le vacanze estive della presidente, e non saremo noi a darle torto. 

Fonti di Palazzo Madama hanno poi replicato che Casellati ha iniziato a utilizzare l’aereo blu solo a partire dall’era del rischio Covid-19, e visto che per ragioni di salute non può fare lunghi viaggi in auto. 

Quanto alle vacanze in Sardegna in un caso, nella città della Riviera del Corallo raccontano che abbia subito lo smacco di dover cambiare residenza perché quella da lei scelta era stata prenotata dalla prima carica dello stato, Sergio Mattarella, mentre lei è soltanto la seconda. Ma queste sono storie di palazzo velenose, che non trovano riscontri ufficiali.

Quella della collera di Casellati «è un’apparenza», ha uno stile  «pignoletto», secondo chi le vuole bene. Che diventa  un caratteraccio sopracciò e arrogante secondo tutti gli altri. Che però sono tantissimi, e la maggior parte grandi elettori che decideranno il prossimo capo dello Stato. 

Per questo non si capisce in base a quale speranza Casellati, ben sei legislature da senatrice, non abbia ancora riposto ordinatamente in uno degli eleganti cassetti di palazzo Giustiniani le sue speranze per il Quirinale.

Forse le è rimasta la voglia di rivincita da quando, il 18 aprile 2018, il presidente della Repubblica le affidò il mandato esplorativo per tentare un accordo tra il centrodestra e il Movimento Cinque stelle. Quel governo non poteva nascere, nacque invece quello gialloverde, e da lì la sua simpatia per Matteo Salvini.

Il gelo di Berlusconi

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 18-04-2018- Roma Politica Palazzo Giustiniani. Consultazioni con il presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per la formazione del nuovo Governo. Nella foto Silvio Berlusconi Photo Vincenzo Livieri - LaPresse 18-04-2018- Rome News Consultation for the new government. In the picture Silvio Berlusconi

Chi ci lavora insieme a Casellati assicura, a voce bassissima, che ci crede ancora, e ci lavora, e convoca riservatissime cene a palazzo Giustiniani per coltivare il suo sogno. Ma non ha alcuna sponda. Intanto non ne ha a casa sua, quella delle Libertà.

Con Forza Italia da tempo è grande freddo. Perché sin dall’inizio della legislatura ha ecceduto in gentilezze verso il leader leghista burlone che le aveva fatta credere nella possibilità di andare al Colle a nome di tutto il centrodestra.

Dimentica dei tempi pionieri del 1994, quello in cui Silvio Berlusconi distribuiva incarichi e onori, ma anche archiviati quelli meno eroici in cui la sua messainpiega sempre invidiabile si scorgeva fra le file alte dei gradoni del palazzo di Giustizia di Milano, dove i parlamentari più zelanti del Popolo della libertà manifestavano in solidarietà del Cavaliere (11 marzo 2013).

Nel suo nome nel 2014 viene eletta membro laico del Consiglio superiore della magistratura. Da quel periodo oggi le arriva uno schizzo di fango: nelle carte dell’inchiesta sull’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara si trova una frase del magistrato Carlo Maria Capristo, che nel marzo del 2018 dichiara grande stima per chi avrebbe contribuito, da palazzo dei Marescialli, alla sua promozione a capo della procura di Taranto: «È una grande donna (...) e si è sempre battuta per me. E io non dimentico».

Lei davanti ai magistrati smentisce di aver favorito quella nomina e smentisce pressioni.

Nell’indagine Casellati è sentita solo come testimone, ma comunque questa è una storia che riaffiora ormai da un’altra vita.

Eletta presidente del Senato, gli azzurri della legislatura del 2018 hanno presto capito che non potevano trarre particolare vantaggio dall’aver eletto una di loro.

E nei tempi più recenti è persino filtrato lo sfogo di Berlusconi che, occupato in sue personalissime manovre quirinalizie, si è accorto che la sua beneficiata ed ex devota «è ingrata e pensa solo alla sua carriera». In soldoni: spera di fargli le scarpe.

Pasionaria confusionaria

Con il Pd peggio che andare di notte. Nell’estate del 2019, quella del Papeete,  l’allora presidente dei senatori dem Andrea Marcucci l’accusa di «non essere terza», insomma di fare favori al ministro dell’Interno calante: «La presidente Casellati evidentemente in accordo con Salvini ha convocato una riunione dell’aula domani alle 18 facendo una forzatura gravissima, si è voluto fare un ennesimo oltraggio al parlamento, ai diritti dei singoli parlamentari, si vuole impedire di seguire le regole democratiche, si vuole permettere a Salvini di dettare l’agenda della crisi».

I governi passano, ma lei in Senato continua a perdere estimatori, anche fra i suoi, che del resto snobba come chi sa di venire da un partito che non c’è più.

Fra i Cinque stelle invece non ne ha mai avuti: la chiamano apertamente «Queen Elizabeth» o alternativamente «Lady Casta», copy Il Fatto, quotidiano che sostiene che dall’inizio del mandato non si sia fatta mancare niente, «dal vitalizio extralarge all inclusive (pure il periodo trascorso al Csm), al mega-staff che manco Sardanapalo», alla «figlia giornalista rampicante, ai voli Alitalia ritardati per i suoi capricci, all’ascensore senatoriale ad personam».

Lei ha fatto rispondere con una lettera di avvocato con «l’incarico di avviare la procedura di mediazione obbligatoria» nei confronti del direttore, «condizione di procedibilità per la successiva azione civile risarcitoria che il Senatore (maschile anche qui, ndr) Alberti Casellati intende intraprendere» per «pubblicazioni ritenute lesive dei suoi diritti».

Dalla plancia di comando del gruppo misto, la presidente Loredana De Petris la bersaglia un giorno sì e l’altro pure.

Collettivamente l’aula malsopporta le ingerenze di merito che ne ostacolano il lavoro, peraltro non sempre azzeccando il garbuglio («legge tutti gli emendamenti, uno a uno», è la versione dei suoi collaboratori). «Una confusionaria», è il generale giudizio di fine seduta.

I sette portavoce

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Poi c’è l’amaro caso dei suoi portavoce e capi della comunicazione. Ne ha cambiati sette. Sette. Inanellando record nei record. I primi quattro li ha fatti fuori nel giro di 14 mesi a partire dal suo insediamento: il primo è Massimo Perrino, ex capo ufficio stampa del Pdl in Senato, sostituito con Tonino Bettanini, già collaboratore di Franco Frattini e Claudio Martelli. A sua volta rimpiazzato con Maurizio Caprara, autorevole giornalista del Corriere della sera, già prestigioso portavoce di Giorgio Napolitano al Quirinale e Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (oggi in forza all’amministratore della Rai Carlo Fuortes).

Nonostante il pedigree, o forse proprio per quello, Caprara regge un mese, e poco più la successiva Anna Laura Bussa, capo del servizio politico dell’Ansa.

A questo punto sceglie di non nominare portavoce e di promuovere sul campo  il capo dell’ufficio stampa della presidenza Francesco Condoluci. Eroico, resiste due anni.

Poi tocca ad Andrea Zanini, che doveva inaugurare un’operazione simpatia a sinistra, sempre con vista  Quirinale: è il nipote di Achille Occhetto. Ma Zanini non fa in tempo ad insediarsi che è già fuori. Ora tocca a Marco Ventura (auguri), già portavoce di un presidente Rai, il sovranista Marcello Foa. 

«Chi non sa governare il suo proprio io, tanto più volentieri governa la volontà del vicino, secondo il proprio orgoglioso volere», dice Faust nella Notte di Valpurga.  

I racconti degli scontri con i transeunti ufficiali della comunicazione sono fiammeggianti.

La presidente legge i giornali con acribia e penna rossobleu e mette sul conto del portavoce ogni sillaba meno che elogiativa pubblicata dalla stampa. 

«È meticolosa, una macchina da guerra», viene spiegato elogiativamente, «se una cosa va bene lei per premio alza l’asticella». 

Tradotto: pretende l’impossibile controllo delle virgole, si infuria per un aggettivo, si tormenta non solo per le eventuali sgradevolezze ma per l’indifferenza della libera stampa, di cui si professa comunque paladina e si profonde in cordialità alle cerimonie estive del Ventaglio e invernale dello Scaldino.

E poi si sfoga con il presunto colpevole di negligenza: «Sbagliare si può, ma se lei sbaglia la colpa ricade su di me e il danno sulla mia reputazione» è la sentenza, che arriva implacabile e seriale prima che la porta sbatta.

Deep state di Palazzo

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Il rapporto con gli altri senatori e quello con la stampa è tutto sommato un paradiso in confronto a quello con le istituzioni e l’istituzione. 

È teso e poco cordiale quello con la segretaria generale dell’aula Serafin (vedasi sopra) e con i suoi vice, e più in generale con tutto il deep state di palazzo Madama si assiste a scene da cortina di ferro. Dalla sua parte c’è solo Teodoro Fortunato, segretario particolare, devoto portaborsette e cortese porta foulard.

Da qualche tempo si sarebbe raffreddato anche l’affetto del suo capo di gabinetto Nitto Palma, ex ministro della Giustizia del governo Berlusconi IV, considerato un’eminenza grigia ma anche lui insofferente alle intemperanze della presidente. 

Più volte ha provato a convocare riunioni del consiglio di presidenza – il vertice amministrativo del Senato – con all’ordine del giorno il cambio delle cariche, ma –prima assoluta a memoria di funzionario – sono andate deserte.

Una volta sarebbe rimasta ad aspettare un’ora nella splendida sala Pannini, livida solitaria  e stizzita sotto l’affresco del carro del sole, leggiadro (lui) fra svolazzanti architetture fantastiche, putti e festoni di fiori che sembravano canzonarla. «E se gli funzionari ti sono contro, o hai la forza di cambiarli o non tocchi palla», racconta uno disertori, con malcelata soddisfazione.

Il freddo Colle

Italian President Sergio Mattarella,Pope Francis wearing a face mask attends a ceremony for peace with representatives from various religions in Campidoglio Square in Rome on October 20, 2020 (Photo by Stefano Spaziani) | usage worldwide Photo by: Stefano Spaziani/picture-alliance/dpa/AP Images

Va peggio, molto peggio, con l’attuale Quirinale. E qua le informazioni si fanno particolarmente felpate. Il rapporto con Sergio Mattarella sarebbe nato a cattiva stella in seguito a un’intervista concessa appena eletta presidente, ma prima di avere incontrato il capo dello stato.

Uno sgarbo impacciato, nato più da mancanza di tatto istituzionale che dalla voglia di protagonismo. 

Il cerimoniale del Quirinale, con intenti pedagogici, in seguito fece attendere otto ore prima di rispondere a una telefonata di palazzo Madama. 

La voglia di protagonismo poi però le ha rapidamente preso la mano.

I cronisti lamentano un’agenda di impegni fitta, ma imperscrutabile in anticipo, «per una maniacale attenzione alla sicurezza», secondo alcuni, «per evitare di comunicare in anticipo impegni che potrebbero saltare» secondo la versione ufficiale. 

In realtà gli esegeti di palazzo riferiscono, se non proprio la scimmiottatura delle abitudini del Colle, di certo l’ansia di marcatura verso il capo dello stato, per segnalare al popolo sovrano la presenza ineluttabile di una seconda carica. Non si sa mai, dovesse capitare di farne le veci.

Un’ansia che nel settembre del 2020 diventò plasticamente e sfortunatamente uno speronamento sulla strada di Vo’ Euganeo, città simbolo, martire della pandemia, nella corsa verso una intensissima cerimonia ufficiale che il Quirinale aveva fortissimamente voluto. Ma il padovano è anche casa di Casellati.

L’auto senatoriale è in ritardo e tenta di superare il corteo presidenziale. Attimi di paura, anche e soprattutto per il pensionato a bordo di una Panda che arriva dalla carreggiata opposta e che per evitare l’impatto si immola a sinistra giù nel fosso. Per fortuna senza conseguenze gravi.

All’arrivo imbarazzo e freddezza fra le scorte, e ancora una volta poca cordialità fra i blasonati passeggeri.

Un sorpasso impossibile, iniziato male e finito peggio, che sembra tanto la prefigurazione della scritta “The end” al sogno della presidente che sperava di farsi chiamare “il presidente” anche lassù, sul Colle più alto. 

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