Presidenzialismo, semipresidenzialismo o premierato: questo è il problema. Risolverlo è impresa ardua per il centrodestra al governo, che sul punto ha portato avanti un’idea chiara in campagna elettorale che però poi si è annebbiata, modificata e diluita nel corso dei mesi. 

Lo slogan della campagna elettorale era chiaro: «Presidenzialismo», ha sempre detto Giorgia Meloni. Che vuol dire una sola cosa:  la forma di governo in cui il potere esecutivo si concentra nella figura del presidente, che è sia il capo dello Stato sia il capo del governo. Stando al programma elettorale del centrodestra, infatti, non ci sono dubbi: «Elezione diretta del presidente della repubblica», recita l’accordo quadro, al primo punto del capitolo sulle riforme istituzionali. Invece, in sei mesi il proposito ha cambiato forma e per ogni partito della maggioranza si è tradotto in qualcosa di differente.

Prima era il presidenzialismo

Del resto, proprio il presidenzialismo è costato la prima gaffe di campagna elettorale. Era il 12 agosto e a scatenare il putiferio fu Silvio Berlusconi, scottato dalla fallita scalata al Quirinale di gennaio, quando dichiarò candidamente a Radio Capital che «se entrasse in vigore il presidenzialismo, penso che sarebbero necessarie le dimissioni del presidente Mattarella per andare alle elezioni dirette del capo dello Stato». 

Apriti cielo: silenzio imbarazzato dal fronte di Fratelli d’Italia che scelse di non commentare l’uscita, tentativi di ridimensionamento da parte dello stesso Berlusconi. Da quel momento in poi - complice anche la consapevolezza del centrodestra della fortissima fiducia degli italiani nel ruolo di garanzia del capo dello Stato - il presidenzialismo ha iniziato ad assumere caratteri sempre più fumosi.

O meglio, il presidenzialismo ha iniziato a diventare un’etichetta generica e non associata a una precisa forma di governo, ma solo una formula capestro per intendere la volontà di «semplificare» e «valorizzare il voto diretto dei cittadini», secondo le parole della premier nel corso dei mesi successivi. Come farlo, però, è una questione tutt’ora aperta.

Lo scetticismo della Lega

Paradossalmente a sottolineare la contraddizione non è stata tanto l’opposizione, quando il secondo partito di governo. La Lega, che pure ha sottoscritto l’accordo di governo, considera il presidenzialismo il dazio da pagare per ottenere l’autonomia differenziata. Due visioni dell’apparato statale non facilmente conciliabili, che però Meloni intende portare avanti in modo parallelo ma che inevitabilmente corrono su binari diversi e a due velocità: l’autonomia è una riforma precisa con forma di legge ordinaria e non ci sono fraintendimenti su ciò che comporta; il presidenzialismo (o la forma che poi si sceglierà) deve venire approvato con legge costituzionale e i suoi contorni sono incerti.

Anche per questo i leghisti, che in questi giorni si sono tenuti ai margini del dibattito sul tema e hanno continuato a lavorare invece sull’autonomia, hanno mantenuto atteggiamenti ondivaghi.

A settembre , durante la campagna elettorale, Roberto Calderoli sosteneva che il parlamento durante l’elezione del capo dello stato diventa peggio delle «assemblee di condominio» e che «la formula ha fatto il suo tempo, non resta che l’elezione diretta del presidente della repubblica». Oggi invece, pur sottolineando che «nel programma di governo c’è l’intesa sull’elezione diretta del presidente della Repubblica», il ministro per l’Autonomia, che è tra le voci più autorevoli tra i leghisti in fatto di riforme, ha aggiunto: «Se ci fosse un’elezione diretta, il capo dello stato diventerebbe una figura politica, non più super partes, che è il ruolo perfettamente incarnato da Mattarella». In altre parole: la Lega non è più incline a toccare il Quirinale togliendogli il ruolo di istituzione di garanzia.

Quale formula allora? Certamente quella del leader solo al comando non è graditissima, visto che al comando rimarrebbe Meloni. «Il premierato potrebbe essere la strada giusta», ha detto Calderoli, intendendo però con questo l’elezione diretta del capo del governo, ma in collegamento con una coalizione ben precisa e quindi con una maggioranza parlamentare.

I cavilli di Forza Italia

Nonostante le parole del Cavaliere sulle dimissioni di Mattarella e quanto concordato nel programma elettorale, proprio Forza Italia si è incaricata di confermare che il Quirinale non verrà toccato dalla riforma costituzionale. A dirlo è stata la ministra per le Riforme, Elisabetta Casellati, secondo cui «nessuno vuole toccare le sue prerogative» e «non c’è alcuna preclusione a mantenere l’attuale modalità di elezione». 

Il partito di Berlusconi, tuttavia, non si è sbilanciato a favore di un sistema rispetto ad un altro. Certamente era il meno contrario all’elezione diretta del capo dello Stato come da programma, anche perchè la posizione storica di FI è quella in favore del modello francese, con il capo dello Stato eletto in via diretta a doppio turno che poi nomina il premier sulla base del risultato elettorale. Questa è l’opzione che è sempre stata la preferita di Berlusconi e che lo aveva portato a rivendicare la primogenitura del presidenzialismo come questione identitaria del centrodestra, ben prima del nazionalismo meloniano.

Tuttavia i tempi dell’egemonia berlusconiana sono passati e il coordinatore nazionale e vicepremier, Antonio Tajani, lo sa bene. Inutile rivendicare formule fino a quando il centrodestra non avrà un orientamento unitario, per questo ha scelto la strada della diplomazia: «Per l'Italia forse il premierato potrebbe essere più gradita dalla maggioranza delle forze in parlamento». Però «vedremo», ha concluso. Del resto, in sei mesi gli orientamenti sono cambiati a tal punto che sarebbe quantomeno imprudente abbracciare ora e in modo netto una posizione più precisa.

E Fratelli d’Italia?

Tutti gli occhi, in realtà, sono puntati su Meloni. La premier deve fare la prima mossa e iniziare a sciogliere i dubbi su cosa debba essere questo presidenzialismo di cui parla da sempre ma che, ora che si accinge a farlo, rischia di essere tutto e il contrario di tutto.

Ripercorrendo le sue posizioni storiche non ci sarebbero dubbi. Dalla sua fondazione Fratelli d’Italia inserisce nei suoi programmi elettorali l’elezione diretta del Quirinale: nel 2013 definiva «non più rimandabile il passaggio a una repubblica presidenziale, con elezione diretta del presidente della repubblica e rafforzamento dell’esecutivo», confermato anche nel 2018 e nel 2022. Eppure, nei giorni scorsi è stato il suo fedele sottosegretario Giovanbattista Fazzolari a dire che «non vogliamo depotenziare il ruolo super partes del Quirinale». Indietro tutta, quindi, per ritornare ai fondamentali: lo scopo della riforma «è un sistema stabile e rispettoso della volontà dei cittadini» è la sintesi che si usa in FdI.

Del resto, una delle qualità riconosciute a Meloni è il pragmatismo: la parola chiave rimane «elezione diretta», di quale carica però si può discutere. Premier o capo dello Stato, l’importante è legarla al consenso popolare.

Con una certezza, però: la riforma costituzionale non deve diventare la maledizione che è stata per molti suoi predecessori, Matteo Renzi in testa. Non deve diventare un referendum su di lei, anzi il referendum va evitato a ogni costo trovando in parlamento i due terzi dei voti. Per questo meglio centellinare le parole ed essere accusati di avere le idee poco chiare sul tema che mettere sul tavolo un’opzione per poi farla impallinare dal fuoco sia amico che nemico.

Per ora, formalmente, si sa solo che il ministero di Casellati è al lavoro sul testo di un disegno di legge costituzionale che dovrebbe essere pronto a luglio e che dovrebbe tener conto anche di quanto detto nei due incontri con le opposizioni, quello avvenuto in gennaio solo con la ministra e il più recente anche con la premier.

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