La riforma costituzionale non ha ancora contenuto nè forma, ma una cosa certamente è: contesa. Croce e delizia di ogni legislatura, tutti i presidenti del Consiglio sognano di venir ricordati per l’approvazione di quella che è sempre descritta come una grande opera di modernizzazione dello Stato. 

Anche Giorgia Meloni non è da meno e, a sei mesi dall’insediamento del suo governo, con un colpo di mano si è impossessata del dossier come ha fatto con tutti quelli più scottanti. Per ragioni politiche prima di tutto: la riforma costituzionale che su cui la campagna elettorale di Fratelli d’Italia aveva appiccicato l’etichetta di presidenzialismo, infatti, deve correre in parallelo con la riforma dell’autonomia targata Lega. Volontà precisa di palazzo Chigi è che le due modifiche procedano di pari passo, anche se la prima ha un iter di approvazione molto più lungo, visto che non basta la legge ordinaria. La riforma costituzionale s’ha da fare, quindi, ma volere però non sempre è potere, men che meno nella macchina infernale della politica.

A seguire passo per passo l’iter per suo conto, Meloni ha individuato due figure fidatissime: da un lato il potente sottosegretario Alfredo Mantovano, ex magistrato che presidia le dinamiche più politiche, dall’altro il costituzionalista di Tor Vergata Francesco Saverio Marini. Figlio dell’ex presidente della Consulta Annibale, all’epoca indicato da An, e proveniente da una famiglia di giuristi d’area centrodestra, è stato la spalla della premier durante tutti gli incontri di consultazione dei giorni scorsi. Ha ascoltato le parole delle opposizioni e attraverso di lui dovrebbero passare le possibili soluzioni tecniche.

Tuttavia, prima ancora di arrivare alla questione del merito, il governo è affondato nei problemi di metodo. In altre parole: anche ammesso di avere un impianto in mente, come si approva una riforma costituzionale che non si areni alla prima curva?

L’ipotesi bicamerale

L’ipotesi bicamerale, pur allontanata dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, non sarebbe ancora stata esclusa. A piacere è l’idea di una commissione ad hoc che si dedichi solo alla riforma della Costituzione e si tenga lontana dalla polemica politica quotidiana che inevitabilmente influenza il dibattito nelle commissioni permanenti. Con il compito di snocciolare i pro e i contro dei vari sistemi sul tavolo, dal semipresidenzialismo alla francese a quello alla tedesca fino all’ipotesi estrema e ormai apparentemente scartata di presidenzialismo puro, per approdare a un testo condiviso che possa superare i due terzi dei voti in parlamento.

Meloni avrebbe già l’uomo pronto per attribuire un cognome alla bicamerale: l’ex presidente del Senato, Marcello Pera. Eletto nelle liste di Fratelli d’Italia in un collegio blindatissimo, faceva parte del trittico di padri nobili del centrodestra insieme al ministro della Giustizia Carlo Nordio e all’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Nella sua lunga carriera prima in Forza Italia e poi da professore, l’ottantenne Pera è considerato la migliore assicurazione di riuscita per postura istituzionale, capacità di dialogo e legami forti con gli apparati statali e anche Oltretevere.

Le strade per seguire questo percorso sono due, gergalmente definite modello De Mita-Iotti o modello D’Alema. Il modello D’Alema è quello della bicamerale per le riforme costituzionali, quindi la forma più classica ma anche quella con inferiori chances di successo perchè molto macchinosa da istituire. Tutte le commissioni di questo tipo, a partire da quella del 1997 guidata da Massimo D’Alema, non hanno portato bene ai rispettivi governi.

In parlamento, però, spesso la linea più breve tra due punti è l'arabesco. Ecco dunque la soluzione De Mita-Iotti: una bicamerale non costituzionale, «che viaggi disarmata» spiega una fonte istituzionale, ma che sia affiancata da un disegno di legge di revisione costituzionale per conferirle poteri referenti e approdare poi alla revisione costituzionale. Questa strada, pur più lunga, permetterebbe di procedere «a fari spenti» e favorirebbe il dialogo con le opposizioni, che preferirebbero un primo passaggio consultivo, e senza l’attenzione mediatica addosso.

Proprio questa sarebbe la principale esigenza del governo, che crede alla possibilità di riformare la Costituzione ma è ben cosciente che per farlo servono condivisione e passi felpati. A bloccare la strada di questa soluzione, però, è schierato in assetto da guerra il ministero delle Riforme, guidato dalla forzista Elisabetta Casellati.

Il ruolo di Casellati

Se Meloni ha iniziato a progettare la sua riforma costituzionale già dalla composizione delle liste elettorali, Casellati lo ha fatto dal minuto successivo in cui ha messo piede al ministero di largo Chigi. In questi sei mesi il suo ufficio ha fatto arrivare in consiglio dei ministri giusto la cancellazione di vecchi decreti regi in ottica di semplificazione. Infatti, tutta l’attenzione della ministra è stata catalizzata dal dossier delle riforme costituzionali. Sostenuta da Forza Italia e non avversata dalla Lega, Casellati infatti ha sempre ripetuto che le riforme si fanno attraverso «la via maestra dell’articolo 138 della Costituzione», ovvero l’iter legislativo che ha come epicentro il parlamento e la commissione Affari costituzionali, con l’apporto del governo attraverso il ministero per le Riforme.

Casellati aveva sperato di bruciare tutti sul tempo incardinando il progetto in parlamento e già a fine gennaio aveva fatto ciò che Meloni ha riproposto nei giorni scorsi: un giro in incontri con le delegazioni delle opposizioni per parlare della riforma costituzionale. Un passaggio che però Meloni ha deciso di ripetere, sedendosi a capotavola. Anche da questo, secondo fonti di maggioranza, sarebbe derivato il fastidio di Casellati, relegata al ruolo di seconda fila dietro a premier e vicepremier. Dal ministero invece trapela tranquillità, anche perchè il passaggio di Meloni con le opposizioni era previsto da tempo, di concerto con Casellati e come prosieguo delle interlocuzioni di gennaio.

Proprio le ire della ministra sono però temutissime: «Per fare una riforma di questo tipo il dialogo è tutto e la ministra non gode di buona fama», spiega una fonte di Fratelli d’Italia, dove già si immagina con terrore l’ipotesi di una Casellati presenza fissa nelle commissioni Affari costituzionali. La ministra, nota anche per la lunga lista di dimissioni nel suo staff (sette portavoce dimissionari in quattro anni alla presidenza del Senato, già un capo di gabinetto da quando è ministra), per gestire le riforme costituzionali si è affidata a un esperto capo di dipartimento: Gino Scaccia, professore di diritto pubblico a Teramo, ex capo del legislativo del ministero degli Affari regionali dello scorso governo e un passato da consulente dell’Ufficio studi della Corte costituzionale. Non solo, però. La rete che Casellati sta tessendo per tenersi stretta la riforma arriva a lambire il Cnel, un’istituzione spesso irrisa e sopravvissuta a vari tentativi di soppressione ma che in questa partita può diventare centrale.

La sponda del Cnel

La data da cerchiare sul calendario è quella del 17 maggio, quando proprio tra le mura di villa Lubin si daranno appuntamento tutti i principali costituzionalisti italiani ad un convegno dal titolo chiarissimo: “Riforme istituzionali e forme di governo. Un confronto”: apre Mantovano, chiude Casellati e tra l’elenco di invitati ci sono ovviamente Marini e Scaccia, ma anche costituzionalisti di altre aree come Stefano Ceccanti, Francesco Clementi e Massimo Luciani. A fare i saluti introduttivi, il neopresidente Renato Brunetta. Proprio questo convegno dovrebbe segnare un nuovo corso per il Cnel, da riportare agli antichi fasti nell’arco costituzionale.

«Ci saranno tutti», è la voce che gira tra chi si occupa di riforme costituzionali. Addirittura, viene considerato in ambienti ministeriali come lo step chiave per chiudere il cerchio sul disegno di legge costituzionale, di cui Casellati in commissione Affari costituzionali aveva annunciato un testo entro luglio.

Dietro l’organizzazione ci sarebbe proprio la ministra,, che continua ad avere feeling con l’ex compagno di partito Brunetta: lei gli offrirebbe utile sponda per valorizzare il Cnel come territorio neutro, in cambio di un aiuto nel non perdere terreno rispetto a palazzo Chigi. Se il come fare le riforme attiene alla contesa politica, l’obiettivo comune del seminario è quello di ragionare sul cosa fare, trovando interlocutori nell’accademia che diano serietà al dibattito e allontanino l’aura della strumentalità come distrattore di massa. «Le riforme si faranno», dicono sia Meloni che Casellati, ora si dovrà inquadrare quali.

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