Nel centrodestra nessuno vuole sentir parlare di spaccatura, ma nei fatti così è: l’emendamento sul terzo mandato ai sindaci e ai governatori regionali è destinato ad aprire una crepa tra la Lega che lo promuove e Fratelli d’Italia e Forza Italia che invece sono contrari.

Il governo non esprimerà un parere in commissione Affari costituzionali, lasciando che a vedersela siano i senatori, depotenziando il più possibile l’effetto negativo dello scontro. Il ministro per i Rapporti col parlamento, Luca Ciriani, suggerisce che «sarebbe saggio che la Lega ritirasse l’emendamento» visto che anche dentro al partito di Matteo Salvini c’è chi ha avanzato l’ipotesi di far slittare il dibattito a dopo le europee. Ma a tagliare corto è il navigato forzista, Maurizio Gasparri, che profetizza: «Lo bocceremo e non succederà niente». Alla finestra invece rimarrà il Pd, che al suo interno ha un nutrito schieramento di favorevoli al terzo mandato e ieri sera si è di nuovo riunito per decidere il da farsi.

In realtà, però, la disputa è solo uno dei passaggi di una strategia politica più ampia e politicamente pericolosa, che Salvini sta portando avanti in vista delle elezioni europee.

Il terzo mandato

Concedere un terzo giro di giostra ai presidenti di regione è un regalo con sopra scritto il nome del veneto Luca Zaia. La proposta per l’estensione è venuta dai parlamentari di quella regione, ma fonti interne insistono da giorni: era chiaro sin dall’inizio che il resto della maggioranza sarebbe stata contraria, dunque l’emendamento serviva solo ad ammansire temporaneamente Zaia, facendogli vedere che qualcosa si muoveva. Nessuna aspettativa di superare il veto di FdI, però.

Anche perché persino in Veneto il potentato di Zaia è ormai inviso a molti, fuori e dentro il suo partito. Del resto il “doge” governa con una maggioranza raggiunta grazie al plebiscitario 44 per cento della sua lista personale. «È un dibattito molto politico, deciderà il parlamento», ha ribadito Salvini, minimizzando il problema che però minimo non è.

Andare alla rottura gli permetterebbe di ottenere due risultati: da un lato mettere fine ai sogni di una ricandidatura da parte di Zaia, che quindi potrebbe anche accogliere il suo invito a correre per le europee; dall’altro distinguersi da Fratelli d’Italia, mostrando la faccia territoriale della Lega vicina agli interessi degli amministratori locali. Proprio questo secondo aspetto è diventato uno dei punti focali della strategia leghista verso le europee, che si intreccia con un altro provvedimento simbolo ancora impantanato al Senato: il premierato in salsa meloniana.

Quella che la premier Giorgia Meloni considera «la madre di tutte le riforme» è ferma per l’ennesima revisione in commissione dopo che gli emendamenti del governo – abilmente ritoccati dallo specialista Roberto Calderoli – hanno aperto a nuovi dubbi interpretativi. Fonti di maggioranza puntano il dito contro i leghisti, che si starebbero muovendo per rendere il percorso del testo sempre più accidentato, restituendo lo sgarbo a FdI che aveva fatto lo stesso sulla riforma dell’autonomia.

Le contromosse

L’orientamento della Lega sembra appunto quello di rispondere al premierato, che accentra i poteri in mano all’esecutivo, con una serie di proposte politiche sulla scia del vecchio mantra autonomista. La prima e più importante è certamente la riforma dell’autonomia, che è passata al Senato e ora va alla Camera, ma di cui mancano ancora da stabilire i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni.

Poi c’è appunto il terzo mandato ai presidenti di regione e ai sindaci, perché «chi ha un buon sindaco o un buon governatore e non può rivotarlo, perde qualcosa» è la spiegazione di Salvini. Infine è pronta una proposta di legge, a firma del veneto Alberto Stefani con la supervisione del ministro Calderoli, per ripristinare le province, abolite come enti territoriali a elezione diretta sotto il governo Renzi.

Lo scacco in tre mosse servirebbe a fare leva sugli amministratori locali – unici certi portatori di voti – e a prendere ulteriore distanza rispetto alla riforma costituzionale di Meloni. Anche a fronte di queste schermaglie, tuttavia, la facciata di unità del centrodestra deve rimanere tale, a immagini come anche a parole. Ieri tutti e tre i leader si sono ritrovati in Sardegna per la chiusura della campagna elettorale per la regione di Paolo Truzzu e Salvini e Meloni sono arrivati sullo stesso aereo di linea.

Un’occasione, forse, per una conversazione a quattrocchi per sminare il nodo più immediatamente problematico del terzo mandato. Ma anche per Salvini di spiegare come intende procedere con il suo pallino più recente – la costruzione del ponte sullo Stretto – su cui la procura di Roma ha aperto un’indagine, pur senza ipotesi di reato e indagati, dopo un esposto presentato dal deputato di Avs, Angelo Bonelli, dalla segretaria del Pd, Elly Schlein e da Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italia, in merito alle «attività di progettazione e realizzazione» dell’infrastruttura.

Poi, dal palco di Cagliari, è stato Salvini ad augurare lunga vita a Meloni: «Più provano ad allontanare me e Giorgia più andiamo avanti insieme come una sola persona, per cinque anni e non un minuto di meno». Sarà, ma intanto sabato la premier potrebbe volare a Kiev con Ursula von der Leyen e presiedere, da lì, il primo G7 a guida italiana. Impossibile non considerarlo un modo di prendere le distanze dal leader della Lega che, sulla morte di Aleksej Navalny, è tornato apertamente filorusso.

Come se non bastasse i sondaggi sulle regionali in Sardegna parlano di una rimonta del centrosinistra e domenica potrebbe arrivare il primo scrollone per il centrodestra. Che farebbe male a Meloni e gongolare Salvini (che ha dovuto rinunciare al bis del suo candidato, Christian Solinas).

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