La prima direzione del Pd del 2024 inizia mentre al portone della sede nazionale manifestano i Giovani democratici, commissariati da quattro anni e in attesa di congresso. Megafono e cori: «Fateci entrare, oh Elly, fateci entrare». Ed è il contrappasso per la segretaria che ha iniziato la sua carriera con il movimento “Occupy Pd”.

Lei risponde in un passaggio della sua relazione iniziale: «Non stiamo impedendo a nessuno di portare avanti il proprio confronto interno e il congresso. Siamo qui per accompagnare, non per fare imposizioni. È necessario che l’accordo su come andare a quel congresso lo facciate tra di voi».

Ma non è la principale preoccupazione di Schlein. Lunedì, dopo le considerazioni sulla situazione politica e sociale (i morti nel cantiere di Esselunga a Firenze, la questione mediorientale, il sit-in contro Putin per la morte del dissidente Navalny, lo scontro sulle riforme), la segretaria ha dovuto sminare con urgenza il conflitto interno sul terzo mandato degli amministratori. Alla fine, nella migliore tradizione, il Pd ha preso tempo per capire cosa succede a destra.

C’è il due ma non c’è il tre

Oggi la destra ha convocato due tavoli: uno sulle amministrative e un altro, al Senato, sull’emendamento della Lega al dl Elezioni, all’esame della commissione Affari costituzionali, per concedere il terzo mandato ai sindaci di tutte le città e ai presidenti di regione. FdI è contraria, anzi considera la partita «chiusa da tempo». Forza Italia anche, ma sfida gli alleati a un voto. La Lega oscilla: archiviato l’oltranzismo, ora cerca una via di uscita soft dalla strada che porta allo scontro sicuro e perdente con la premier.

Il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, propone di rimandare la discussione a dopo le europee. E anche Matteo Salvini non dà segnali di resistenza a oltranza. I più attenti fanno notare un episodio che lunedì si è consumato alla Camera.

Il deputato di Azione Enrico Costa ha presentato un ordine del giorno sul terzo mandato e il presidente Lorenzo Fontana lo ha giudicato inammissibile. Fontana è uno strettissimo esecutore dei desiderata di Salvini, il che dice che in fondo la battaglia potrebbe essere più un contentino per Zaia, che una barricata irrinunciabile.

Anche perché nel giro dei salviani veneti il plebiscitato governatore è visto con poca simpatia. In cambio del ritiro dell’emendamento, che alle brutte dovrebbe essere votato in commissione giovedì, Salvini chiede il candidato presidente della Basilicata. La regione andrà al voto presto, il 21 e il 22 aprile. E lì il Carroccio spinge il segretario regionale Pasquale Pepe. Ma FdI non sembra propensa a lasciare nulla all’alleato riottoso. Che in quella regione peraltro ha preso sei consiglieri e ora se ne ritrova solo uno.

Il tetris potrebbe essere affrontato domani a Cagliari, quando i tre leader – Meloni, Salvini e Tajani – si ritroveranno fianco a fianco per la chiusura della campagna elettorale del candidato presidente della regione, Paolo Truzzu. Al momento nebbia in val Padana. Lunedì sera il presidente dei senatori leghisti Massimiliano Romeo ammetteva: «Attendo indicazioni». Sottinteso da Salvini.

Pd, decide la commissione

Nello schieramento opposto, di chiaro c’è il no di M5s e dei rossoverdi. I centristi aspettano di capire che fa la destra. E anche il Pd. Lunedì la segretaria ha detto con orgoglio che gli avversari «sono spaccati in maniera evidente. Noi a differenza degli altri siamo abituati a discutere».

Poi, staccato lo streaming, ha dato la parola al responsabile enti locali Davide Baruffi che ha proposto una commissione per «discutere» una posizione «più complessiva», come suggerito da Andrea Orlando («Molte cose sono state fatte, la fiducia dei cittadini nei confronti di alcune istituzioni si è rafforzata, l’efficienza probabilmente anche. Ma se guardiamo alla spesa sanitaria o al dato della partecipazione al voto non possiamo parlare di un successo a tutto tondo» dell’elezione diretta dei governatori).

A Baruffi l’arduo compito di illustrare la mediazione: «Abbiamo avanzato la disponibilità a un confronto di merito non schiacciato sul tema dei mandati, ma che preveda un sistema di pesi e contrappesi. La segretaria ha avanzato l’idea di un gruppo di lavoro da metter in campo da qui a giovedì. Se è solo un braccio di ferro fra Lega e FdI, se ne assumeranno la responsabilità». Se il voto dovesse davvero esserci, il Pd potrebbe uscire dalla commissione e lasciare la maggioranza alla propria resa dei conti.

I sindaci e la minoranza fanno buon viso a cattiva sorte. Ma Antonio Decaro, sindaco di Bari, prossimo candidato alle europee e pezzo forte delle preferenze nel sud, fa sentire la sua opinione: quella sul terzo mandato «non è una battaglia di potere. Sono donne e uomini che all’interno dello loro città hanno fatto bene il lavoro, quindi meritano un momento di confronto pubblico. Rischiamo di non far votare il sindaco dopo due mandati come se avessimo paura. E il Pd non ha paura dei cittadini. Se c’è uno spazio politico per intervenire ora, questo spiraglio non lo dobbiamo chiudere noi».

La tesi della minoranza Pd è che aiutare la Lega farebbe esplodere le contraddizioni nella destra. Quella della maggioranza Pd è opposta. La spiega Marco Sarracino, responsabile Sud: «Noi ora siamo nelle condizioni di determinare un effetto domino nel centrodestra proprio su autonomia e premierato, se la norma sul terzo mandato non passasse». Insomma, se non passa il “ter”, la Lega – è la convinzione – per rappresaglia potrebbe frenare sul premierato. E a quel punto FdI fare ritorsioni sull’autonomia regionale.

Il Pd ci spera. Intanto si mette alla finestra. Il no alla legge Calderoli è netto (come del resto quello sull’elezione diretta del premier). Eppure la segretaria in direzione non fa neanche un cenno alla manifestazione romana del presidente della Campania, Vincenzo De Luca. La crepa fra i due si allarga. E invece lui in serata segna un colpaccio: il Tar accoglie, anche se in parte, il suo ricorso contro il ministro Raffaele Fitto sullo sblocco dei Fondi di coesione.

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