Fare presto, fare tutto lontano dai riflettori. E chiudere la vicenda prima possibile, sterilizzando l’attacco delle opposizioni. Fino ad arrivare a un’inversione dell’ordine dei lavori dell’aula della Camera.

Nel gran caos parlamentare si è capito che sulle mozioni di sfiducia ai ministri Matteo Salvini e Daniela Santanchè, la destra ha scelto una strategia precisa: nascondere ogni affanno, provare a occultare i problemi. Mentre i diretti interessati hanno evitato di farsi vedere. Derubricando la vicenda a «perdita di tempo» a Montecitorio, come ha sostenuto la Lega nella sua posizione ufficiale.

A microfoni spenti, però, in area Forza Italia ammettono la delicatezza della giornata. Un voto è un atto pubblico, una difesa ufficiale. E in particolare sulla ministra del Turismo più di qualcuno si è chiesto quanto tempo potrà durare l’asserragliamento sulla poltrona. In passato lo aveva fatto il vicesegretario leghista, Andrea Crippa. «Valutino Meloni e Fratelli d’Italia», aveva dichiarato. Vista la concomitanza dei voti, la Lega ha ora scelto un profilo più basso.

La mappa per orientarsi negli affanni della destra è rintracciabile nel timing del dibattito. Sembra un dettaglio tecnico, ma non lo è. Lega e Fratelli d’Italia hanno modificato i tempi delle votazioni a piacimento per minimizzare il danno d’immagine, quella ricaduta politica che impatta tanto sul leader leghista quanto sulla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Cambi continui

Per capire la portata della confusione, bisogna riavvolgere il nastro. Il voto alla Camera sulla mozione di sfiducia nei confronti di Salvini è stato rinviato la scorsa settimana, dopo la discussione generale, con la motivazione che c’era la Pasqua di mezzo. Era stata avanzata l’ipotesi di un ulteriore posticipo.

Ma alla fine è stato deciso l’anticipo – di poco – ma in una collocazione serale. L’obiettivo: minimizzare il danno d’immagine. Lo slittamento a martedì prossimo – è il ragionamento circolato nella maggioranza – avrebbe tenuto sulla graticola il ministro delle Infrastrutture per almeno altri cinque, sei giorni. Meglio cavarsi d’impaccio prima possibile.

Per questo motivo, al ritorno dalle festività pasquali è stata messa in conto una seduta notturna a Montecitorio per consentire ai deputati di esprimersi sulla sfiducia al leader della Lega così da abbassare al massimo il livello di attenzione sul vecchio contratto di collaborazione politica siglato con Russia unita, di cui non risulta una disdetta ufficiale. Per gli addetti ai lavori è una storia nota, per il grande pubblico un po’ meno.

Quindi, le opposizioni – con Azione capofila – hanno puntato a incunearsi nelle differenze della maggioranza, parlamentarizzando il caso. A chiarire l’intento è stato proprio Carlo Calenda: «La mozione serve a dimostrare che l’Italia non passa sotto silenzio lo sconcio di un vice presidente del Consiglio formalmente alleato con un dittatore sanguinario».

Prendendosi la replica di Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera: «Nel 2017 Calenda, da ministro, faceva accordi con la Russia».

Come prevedibile è scattata una difesa d’ufficio nella destra. Una linea emersa con le parole del deputato di Forza Italia, Flavio Tosi. «Salvini si è sempre dichiarato amico di Putin», ha spiegato. Aggiungendo comunque: «La Lega in aula sulla difesa dell’Ucraina e l’invio di armi ha sempre votato in linea».

Augusta Montaruli di FdI non ha negato una certa fascinazione del leader leghista verso il Cremlino. E l’ha buttata sul governo Draghi: «Perché Salvini andava bene per sostenere il governo Draghi e non va più bene per sostenere il governo Meloni, se le posizioni come mi pare erano invariate?».

Silenzio e sostegno

Del resto, le bocche cucite di ministri e parlamentari, compresi quelli più in vista, erano un sintomo del nervosismo fin dal primo mattino: hanno cercato di svicolare di fronte alle domande dei giornalisti, evitando addirittura le frasi di circostanza.

Salvini si è presentato a Montecitorio per il question time del pomeriggio, per uno strano intreccio del calendario, salvo dileguarsi a passo rapido all’uscita dalla Camera dove sarebbe stata discussa la mozione di sfiducia nei suoi confronti. Niente presenza in aula durante le dichiarazioni di voto sulla mozione.

A differenza della posizione del vicepremier, la ministra Santanchè ha dovuto attendere questa mattina per il voto sulla sua mozione di sfiducia. L’appoggio alla ministra del Turismo è una scelta politica ben precisa. Meloni e il suo partito si stanno assumendo la responsabilità di sostenerla, sfruttando la mano arrivata da Italia viva, che ha annunciato il no alla sfiducia.

«È basata sulle indagini giudiziarie che la riguardano. E noi non chiediamo le dimissioni per un avviso di garanzia o per un rinvio a giudizio», ha detto Matteo Renzi.

Dalla maggioranza è trapelata la strategia: in parlamento Santanchè, attaccata per la gestione delle sue aziende e le inchieste innescate, verrà difesa, senza cedimenti, dall’intera coalizione. Ma c’è chi, dentro FdI, ha sussurrato ai vertici meloniani di valutare la spinta alle dimissioni, magari ammantate da nobili motivazioni, salvando quantomeno le apparenze.

Sempre Tosi ha fatto capire il sentiment: «Sarà la presidente del Consiglio, visto che la ministra Santanchè è espressione del suo partito, a valutare insieme a lei quali decisioni prendere, perché questa è una questione politica che attiene a Fratelli d’Italia».

Insomma, i berlusconiani non voltano le spalle alla ministra. Solo che non faranno le barricate per confermarla al governo. I ranghi serrati della maggioranza, con la presenza in massa dei deputati, hanno chiuso il cerchio sulla volontà di evitare scivoloni. Ma la compattezza di facciata serve solo a nascondere i problemi. Messi a tarda ora.

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