Il governo guidato da Mario Draghi ha ottenuto una larghissima fiducia dalle camere, e può cominciare il suo difficile cammino per ricostruire il paese, piegato da una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti. Lo tsunami iniziato con il ritiro delle ministre da parte di Matteo Renzi e le dimissioni di Giuseppe Conte è terminato come molti – nelle istituzioni e nei corpi intermedi della nazione – speravano, e come altre forze politiche (quelle della maggioranza, ma non solo) fortissimamente temevano.

Grazie al suo curriculum Draghi è stato annunciato dai media come una sorta di salvatore, ma per dare giudizi sensati bisognerà aspettare i fatti (come lo stesso premier ha sottolineato) e valutare gli effetti del suo operato sull’emergenza Covid e sulle riforme necessarie a spendere con intelligenza i soldi del Recovery fund.

Nel frattempo, però, è ben chiaro chi ha vinto e chi ha perso la battaglia di palazzo Chigi. La staffetta tra l’avvocato del popolo e l’ex presidente della Bce è stato uno snodo cruciale per la politica nazionale e per tutti i suoi protagonisti, che hanno giocato per settimane una partita che segnerà nel breve-medio termine il destino di leader e di partiti. Ora che è finalmente conclusa, è possibile stilare una classifica ragionata tra chi ha sbagliato tutto, chi è riuscito a sopravvivere, chi ha indovinato la strategia e coloro che sono riusciti inaspettatamente a rilanciarsi, comprendendo che un cambio radicale di Zeitgeist stava per travolgere i vecchi assetti.

Gianni Letta

Partiamo con Gianni Letta. Nell’ultima decade è stato dato politicamente morto una dozzina di volte. L’eminenza azzurra, grande regista del berlusconismo e delle nomine di stato negli anni Novanta e 2000 (in tandem con l’amico Luigi Bisignani) veniva dato prima della crisi ai margini del partito. Il fallimento del patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi e il successivo trionfo elettorale dei sovranisti e della Lega di Matteo Salvini avevano precipitato le sue quotazioni. Cultura morotea, rapporti strettissimi con il Vaticano che lo considera tra i pochi interlocutori di peso in Italia, Letta ha subito nelle ultime elezioni persino l’onta di vedere scomparire dalle liste elettorali di Forza Italia nomi da lui stesso segnalati. Sostituiti da candidati vicini ad altri berlusconiani, in primis Niccolò Ghedini e Licia Ronzulli, da sempre fautori – a differenza di Letta – di un rapporto stretto tra gli azzurri e i sovranisti.

Nonostante le amarezze, Letta (86 anni ad aprile) è riuscito a tenere in piedi pezzi del suo sistema relazionale. Non a caso qualche settimana fa Renzi ha spiegato a lui, per primo, che non voleva solo un rimpasto di governo, ma il big bang dell’alleanza Pd-M5s e, soprattutto, la testa di Giuseppe Conte. L’ex direttore del Tempo ha avvertito Berlusconi spiegandogli che il senatore di Rignano faceva sul serio. Così ha preparato il campo – anche grazie ai buoni uffici che da sempre vanta con il Quirinale – a un ingresso di Forza Italia nel governo istituzionale. Tutti i ministri di Forza Italia scelti da Mario Draghi hanno il suo imprimatur: Letta stima Renato Brunetta da sempre, la Gelmini è vicina sia a lui che a Bisignani, Mara Carfagna ascolta i suoi consigli da quando ha scelto un strada moderata ed europeista. I filosalviniani dentro Forza Italia si stanno invece leccando le ferite: Letta è uno che la vendetta la serve fredda.

Imperituro

Massimo D’Alema

L’ex premier comunista, che da anni fa finta di non interessarsi «minimamente» al palazzo e di occuparsi «solo e soltanto dei convegni» della sua Fondazione Italianieuropei e della conferenze in Cina, sperava fino all’ultimo in un Conte ter. «Non si manda via il più popolare del paese per volere del più impopolare», disse di Conte e Renzi in un’intervista a Repubblica di Stefano Cappellini. Invece, l’incubo ha preso forma.

Il capo della Ditta, da qualche tempo diventato presidente dell’advisory board di EY, è ancora attonito. I governi tecnici non gli piacciono, e sperava che le manovre di uno dei suoi fedelissimi, il piddino Goffredo Bettini, potessero salvare capra e cavoli con l’operazione “responsabili”. Ora, con Draghi la rete di potere di D’Alema, che ha prosperato nel Conte bis, avrà margini più risicati. L’ex comunista nei circoli del potere della capitale pesa assai più di tutti gli esponenti Leu messi insieme, e può sempre contare sull’allievo Roberto Speranza rimasto alla Salute, ma non potrà più dare consigli a Roberto Gualtieri, l’ex ministro dell’Economia (e storico membro del board di Italianieuropei) tra i plenipotenziari alla gestione dei 209 miliardi del Recovery fund. Presto il leader maximo rischia di veder ridimensionato anche il ruolo di un altro dei suoi pupilli, il commissario straordinario Domenico Arcuri che anni fa promosse, per primo, a capo di Invitalia. Farà di tutto per proteggerlo, ma – anche a causa dell’inchiesta sulle mascherine che ha travolto l’imprenditore Mario Benotti - non sarà facile.

Ammaccato

Giancarlo Giorgetti

Il numero due della Lega è il politico che, dalla cadute di Conte, ha ottenuto tutto quello che aveva preventivato fin dall’inizio della crisi. Fine analista, apprezzato da Draghi e rappresentante di quel partito del Pil che è assai più attento agli schei che alle sparate sovraniste di Salvini, Giorgetti prima ha vaticinato in tempi insospettabili la caduta di Giuseppi, poi ha approfittato del momento magico per imporre al suo capo politico, ancora recalcitrante, l’entrata della Lega nel nuovo governo. Insieme a una svolta europeista che fino a pochi giorni fa era francamente inimmaginabile.

Non solo. Il varesotto ha suggerito a Draghi i nomi degli altri ministri leghisti da assoldare (Erika Stefani e l’amico Massimo Garavaglia, piazzato al Turismo), suggerendo di escludere dall’esecutivo l’ala più radicale della Lega. Poi ha ottenuto per sé il dicastero dello Sviluppo economico, quello che allocherà nei prossimi anni una delle fette più sostanziose del Recovery fund.

A un anno e mezzo dal suicidio del Papeete, dalle prime inchieste sui commercialisti vicini alla Lega e dagli scandali russi che hanno coinvolto gli uomini del segretario, Giorgetti (insieme a Luca Zaia) proverà a sfruttare l’onda per mondare nel governo istituzionale i peccati di Salvini, e istituzionalizzare un partito il cui leader resta – fuori dai confini nazionali - impresentabile.

Obiettivo nel breve termine: mettere fine all’alleanza, a Strasburgo, con gli estremisti di Alternative für Deutschland e l’ultradestra di Marine Le Pen.

Da numero due a numero uno

Matteo Renzi

Piaccia o meno, il capo di Italia viva è stato il vero trionfatore della sfida lanciata a Giuseppe Conte e ai dirigenti democratici. Qualche suo amico esagera, paragonando la sua astuzia a «quella di Napoleone nella battaglia di Austerliz». È un fatto, però, che con una manciata di senatori, un movimento personale dato al 3 per cento e una impopolarità tra gli elettori italiani paragonabile a quella dell’arbitro Moreno, Renzi abbia portato a termine un piano d’attacco studiato fin nei minimi particolari. Nonostante gli azzardi da pokerista, malgrado le polemiche furiose sui suoi rapporti economici con il regime dell’Arabia saudita, gli attacchi frontali degli ex alleati l’ex premier non ha mai dubitato, e ha ottenuto esattamente quello che voleva: la testa di Conte e lo smottamento della maggioranza tra Pd e grillini.

Qualche osservatore segnala che Renzi adesso non avrà più alcuna golden share sul governo, e la presenza di un solo ministro del suo partito (Elena Bonetti) è prova lampante di una influenza ridotta. Altri nel Pd sostengono che nelle decisioni renziane di machiavellico c’è poco o nulla, e che in realtà se il M5s non avesse messo il veto su Maria Elena Boschi ministra, il Conte Ter avrebbe visto la luce senza problemi.

Sia come sia, il rignanese ha mantenuto uniti i sui gruppi parlamentari (nonostante i tentativi disperati dei democrat di spaccarli), ha allontanato Conte dal centro della scena, ed evitato le urne, in modo da per prendere tempo.

Gli serve per ricostruirsi un’immagine diversa (missione ardua), e lavorare a nuove alleanze in vista delle prossime elezioni politiche. Nel frattempo, riprenderà a fare quello che più gli aggrada: viaggiare e tenere conferenze a pagamento in giro per il mondo. Il suo auspicio – Covid permettendo – è quello di fatturare l’anno prossimo assai più del milione di euro e rotti segnalato nell’ultima dichiarazione dei redditi.

The last dance

Nicola Zingaretti

Il leader del Pd non si aspettava la mossa del cavallo ordita da Renzi. Era certo che alla fine Conte si sarebbe salvato. L’arrivo di Draghi lo costringe ad abbracciare un governo di tutti che rischia di minare alla base il progetto a cui lavora da quando è segretario: l’alleanza sistemica con il Movimento 5 stelle. Di errori - quello che molti ingenerosamente considerano un “segretario minore” - ne ha fatti parecchi. Essersi affidato mani e piedi ai sussurri di Bettini gli ha fruttato gli sberleffi dei nemici interni, aver sopravvalutato le capacità politiche di Conte, che gli aveva garantito di essere riuscito a raffazzonare una squadra di responsabili, è altra colpa grave.

Arrivato Draghi, però, Zingaretti è stato il primo a capire che il diktat di Sergio Mattarella non poteva essere discusso: ha subito detto sì all’ex capo della Banca centrale europea, ha convinto Beppe Grillo a mantenere salda la coalizione con il Pd nonostante la dolorosa defenestrazione di Conte, e infine ha chiesto e ottenuto una rappresentanza adeguata nel nuovo esecutivo. Sebbene il Pd abbia circa il 10 per cento dei parlamentari il partito ha ottenuto tre ministri (uno in meno dei grillini, che controllano però un terzo di Camera e Senato), affiancati pure da tecnici “d’area”: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, il capo di gabinetto di Draghi Antonio Funiciello e pure il neoministro all’Istruzione, il prodiano Fabrizio Bianchi, hanno solidi legami con la dirigenza del Nazareno. La delusione per la fine del Conte bis e l’esclusione di Gualtieri dal Mef (e dalla gestione del Recovery) resta profonda, ma Zingaretti ha meno responsabilità di quante gliene addossano i critici. Il suo futuro dipenderà anche dalle prossime elezioni comunali di Roma, Milano, Napoli e Torino, ma i suoi rivali (da Stefano Bonaccini alla corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini) difficilmente otterranno in tempi brevi un congresso che possa mettere in pericolo la sua posizione.

Sopravvissuto

Matteo Salvini

Più di un addetto ai lavori inserisce il leghista nell’elenco di coloro usciti vincitori dalla crisi di palazzo. «Matteo Salvini si era autoconfinato all’opposizione, ora Renzi lo ha resuscitato», la sintesi dei politologi che considerano il capo del Carroccio di nuovo in auge. In realtà l’ascesa di Draghi, salvatore dell’euro e banchiere osannato dai tecnocrati di Bruxelles, rischia di accelerare il declino politico di Salvini. I segni del regresso sono evidenti: al netto dei recenti schiamazzi sulla moneta unica e su alcuni ministri piddini, il segretario non ha nessun uomo di fiducia a palazzo Chigi. Soprattutto, ha ingurgitato senza fiatare un programma lontano dai mantra sovranisti: priorità all’ambiente, rapporti stretti con l’Europa, irreversibilità dell’euro, atlantismo spinto, nessuna apertura alla flat tax. Pure la conferma della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, mai stimata da Salvini.

Non è tutto. L’ascesa al governo dei leghisti moderati potrebbe portare presto a un riequilibrio dei rapporti di forza all’interno del partito. Anche perché con il crollo dei consensi nei sondaggi, i disastri del fedelissimo Attilio Fontana nella lotta al coronavirus e le sconfitte a catena alle regionali (pesano quelle in Emilia-Romagna e in Toscana), in molti sostengono che la parabola di Salvini sia declinante. Nella Lega finora nessuno ha avuto i mezzi per sfidarlo. Eppure i tempi cambiano. L’altra Lega è al governo, e lui no. E - a causa dei processi e dei rapporti chiacchierati con gli uomini di Vladimir Putin - la sua leadership resta ancora impresentabile, almeno agli occhi delle cancellerie europee e della nuova presidenza americana. Chissà se alle prossime elezioni sarà davvero lui il capo del centrodestra.

Sovranista decadente

Sergio Mattarella

Il presidente della Repubblica ha gestito la crisi di governo (che rischiava di diventare sistemica) con lucidità e eccezionale visione politica. Assai diverso per indole dal suo predecessore Giorgio Napolitano, considera il suo incarico come arbitro imparziale tra i differenti interessi rappresentati in parlamento. Anche stavolta, fino all’ultimo, ha lasciato carta bianca ai partiti affinché trovassero in piena autonomia una soluzione alla crisi.

Contemporaneamente, però, il capo dello Stato e i suoi consiglieri più influenti (su tutti il segretario Ugo Zampetti, poi Daniele Cabras, Simone Guerrini e Francesco Saverio Garofani) hanno lavorato in silenzio a un piano B, da tenere pronto nel caso il tentativo di Conte fallisse. Le interlocuzioni con Bruxelles e con Angela Merkel hanno appurato subito che possibili elezioni anticipate sarebbe stata una scelta avventata. Non solo per il contagio, ma perché tempi lunghi avrebbero messo in forse l’arrivo degli aiuti europei. Mattarella ha così chiamato il miglior grand commis sulla piazza, Draghi, che contro i pronostici di tanti ha accettato l’arduo compito. Poi ha piegato, con un discorso di sei minuti e mezzo, quasi tutto l’arco parlamentare al suo volere: appoggiare senza se e senza ma il neonato governo presidenziale.

È improbabile che Mattarella abbia promesso a Draghi, come ipotizzano alcuni commentatori, anche la staffetta al Quirinale. Non è nei suoi poteri, e nemmeno nel suo stile. Ma – al di là di quello che accadrà l’anno venturo - è certo che il presidente della Repubblica ha sfruttato la disfatta del sistema dei partiti per mettere in mani sicure il Recovery fund (Draghi e la sua squadra hanno certamente un curriculum migliore di quella guidata da Conte) e il futuro del paese nel momento più buio della sua storia recente.

Faro nella notte

Beppe Grillo

Il garante dei Cinque stelle, o «l’Elevato» come ama autodefinirsi, non ha mai fatto passi di lato come annunciato tante volte. Quando il gioco si fa duro, l’allenatore entra in campo, manda in panchina i ragazzi e detta la linea. L’ha fatto anche stavolta, evidenziando che a 12 anni di distanza dalla fondazione del movimento è sempre lui, e solo lui, il padrone del partito. Se uno vale uno, Grillo vale per tutti: in tre anni ha dato via libera all’alleanza con gli xenofobi della Lega, poi ha impresso una svolta a sinistra inventandosi (insieme a Renzi) il Conte bis e l’accordo semi-strutturale con il Pd, infine oggi ha obbligato la ciurma riottosa dei parlamentari, il capo ad interim Vito Crimi e quasi tutta la banda di scettici che ha piazzato in Senato e alla Camera nel 2018 a votare compatti per Mario Draghi.

Trasformatosi in un amen da «esponente del gruppo Bilderberg» a «grillino ambientalista». Il passaggio storico è stato deciso in solitaria: Davide Casaleggio e Alessandro Di Battista avrebbero preferito l’opposizione, mentre Luigi Di Maio e Roberto Fico (il suo ruolo da pontiere con il M5s è considerato cruciale sia da Draghi sia da Mattarella, che non vogliono che lui lasci Montecitorio per candidarsi a sindaco di Napoli) sono gli unici a cui Grillo ha chiesto un parere sul da farsi. Tra espulsioni di massa e probabili scissioni, comunque, il comico genovese sa che la sfida da qui alle prossime elezioni è enorme: tenere in vita un movimento dilaniato non sarà facile, e – tranne lui stesso e Conte – non sembrano esserci altre figure di spicco in grado di ricompattare un esercito in rotta.

Zelig

Giuseppe Conte

L’avvocato pugliese è, ça va sans dire, lo sconfitto. Dopo due anni e mezzo in crescendo costante, con popolarità alle stelle e vento in poppa, ha valutato male i suoi principali avversari (Renzi) e sbagliato nelle ultime settimane ogni manovra possibile. La bulimia di potere è peccato capitale che colpisce sovente i novizi della politica, e il giurista trasformista (capace di firmare con gaudio i decreti di Salvini e bacchettare pochi mesi dopo le politiche sovraniste) non fa eccezione.

Credeva che la debolezza del Movimento Cinque Stelle e l’appiattimento dei democrat sulla sua leadership fosse garanzia perpetua di sopravvivenza, facendo male i conti. Dopo aver ben gestito la prima onda pandemica e ottenuto dalla Ue i 209 miliardi del Recovery ha accentrato troppo potere a palazzo Chigi, alienandogli la simpatia di pezzi della maggioranza e del deep state. L’uso eccessivo dei Dpcm, una seconda fase Covid affrontata male, il pasticcio del Recovery plan scritto male e in gran segreto, gli sono stati fatali.

Ora annuncia di voler tornare in cattedra, ma nessuno crede che il professore (uscito di scena con garbo istituzionale, va detto) abbia davvero chiuso con la politica. Il desiderio primario è quello di scalare il movimento, in secondo ordine rimanere in ogni modo sul proscenio per non essere dimenticato, e tornare alle prossime elezioni come “federatore” del centro-sinistra. Impossibile prevedere se i desiderata avranno buon esito, ma l’ex premier farà di tutto per tornare protagonista.

Il potere logora chi non ce l’ha, e se lo assaggia uno come Conte («il difetto di Giuseppe? È troppo ambizioso» disse suo padre al Tg2) niente più per lui avrà lo stesso sapore.

Inconsolabile

 

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