Il centrodestra compatto, pronto a ripartire dalla competizione fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni e tuttavia salvo, anche se con qualche ammaccatura al centro e con Forza Italia ormai definitivamente al traino della locomotiva leghista; è invece tramortito e spaccato il centrosinistra in tutte le sue declinazioni possibili, campo largo, campo stretto, fronte progressista. Il D Day di Mario Draghi si conclude con uno schieramento rafforzato e l’altro suonato come un pugile.

Più che i diciotto mesi di governo di «unità nazionale», più che i due precedenti governi gialloverde e giallorossi, è quella di ieri la giornata da cui tutte le forze politiche partono per la prima campagna elettorale estiva della storia della Repubblica.

Quando ha fatto suonare l’ora della verità per la sua maggioranza, il presidente del Consiglio era preoccupato del destino dell’azione del governo, e non dei destini dei partiti. E una parte dei partiti della maggioranza – non quelli che si sono schierati per la fiducia sulla risoluzione firmata da Pier Ferdinando Casini – era preoccupata del proprio destino, assai meno di quello dell’azione di governo che fin qui aveva sostenuto, delle emergenze, della pandemia, della crisi, di tutti i temi che hanno gonfiato gli interventi del Senato; delle borse che hanno cominciato a colare a picco dalla mattina, previsione inequivocabile di quello che stava per succedere.

Draghi, che ha fatto una scivolata poi corretta invitando le forze politiche a rispondere al popolo italiano, non aveva intenzione di accettare mediazioni. Lo aveva spiegato al Colle, lo si è capito subito da quella domanda che ha posto nel suo durissimo discorso, bastonava i Cinque stelle ma ancora più la Lega: «All’Italia non serve una fiducia di facciata che svanisce davanti ai provvedimenti scomodi; serve un nuovo patto di fiducia sincero e concreto. I partiti e voi parlamentari siete pronti a ricostruire questo patto? Siete pronti?». A riascoltarla a fine giornata, è una domanda retorica.

Nella replica, quando è chiaro che la maggioranza non c’è più, ha rincarato la dose dal lato Cinque stelle: «Sul salario minimo c’è una proposta in corso di approvazione», «il reddito di cittadinanza è una cosa buona ma se non funziona è una cosa cattiva», «Il problema non è il superbonus ma i meccanismi di cessione, fatti senza discernimento». Gli applausi sono arrivati da destra, ma a quella destra Draghi non ha offerto il nuovo governo che gli chiedeva, con rimpasto e nuovi ministri (leghisti).

Le responsabilità

Ci sarà tutto il tempo della campagna elettorale per ripercorrere il film degli errori di tutti quelli che hanno portato alla fine del governo Draghi: ci sono molte impronte nel delitto, più di quelle che appaiono a prima vista. Bisognerà riguardare al ralenti, per esempio, la scissione di Luigi Di Maio, la cui regia viene messa in capo a palazzo Chigi e al Colle, e che ha tirato la corda pazza del M5s. Di una scissione ventilata, che forse si stava preparando nella Lega, e anche in Forza Italia (ieri è iniziata con l’addio della ministra Maria Stella Gelmini).

Intanto a terra si contano i feriti soprattutto nel terreno del centrosinistra. L’alleanza con i Cinque stelle è seppellita. Letta ha dovuto ammettere che «le scelte di Lega e FI, e del M5s sono gravi, sbagliate», «chi ha affossato il governo è andato contro l’Italia». L’orgoglio di aver «preferito l’interesse generale, della nazione, a quello di parte» sarà il core business della campagna elettorale. Il segretario Pd ha combattuto «per convincere i partiti di maggioranza a pensare agli italiani e non a sé stessi. Non ci siamo riusciti, ma la nostra linearità pagherà nel paese». In realtà Letta ha provato a convincere Giuseppe Conte a dare il contrordine ai suoi. Ma il leader pentastellato ormai era fuori fase, consapevole che gli spiriti animali che non ha saputo governare nel Movimento poi si rivolgeranno contro di lui, leader inadatto a guidare un manipolo di rivoltosi a intermittenza che hanno votato tre governi prima di tornare antisistema. «Andremo alle elezioni rapidamente e gli italiani sceglieranno fra chi ha voluto affossare questa esperienza di governo e chi, al di là dei propri interessi di parte, aveva scelto di portarla avanti», dice Letta. Ci sarà tempo per valutare l’effetto domino che la mancanza di una coalizione provocherà nelle regioni al voto, dalla Sicilia – che il 23 luglio voterà primarie di coalizione – alla Lombardia a quella diventata difficilissima nel Lazio.

Il parlamento rischia di finire in maniera disordinata, al Senato non sono ancora state approvate le modifiche del regolamento necessarie per il taglio dei parlamentari. L’ultima immagine di palazzo Madama è alla buvette, un prosecchino che Paola Taverna, Laura Bottici e altri senatori grillini bevono mentre ancora si vota. Matteo Renzi in aula ha avvertito gli «amici e i compagni del Pd» che non sarà della partita se il Pd si alleerà con i grillini. Quella partita è stata annullata, ma quella delle alleanze con i vari «centrini» non è neanche detto che si giochi.

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