Alcuni datori di lavoro stanno chiedendo ai lavoratori di vaccinarsi, prospettando conseguenze anche gravi in caso di mancanza. Ad esempio, dal prossimo settembre, ai dipendenti della Sterilgarda che risulteranno non vaccinati contro il Sars-CoV-2 «verranno attribuite mansioni diverse da quelle normalmente esercitate e tali da escludere rischi di contagio per contatti con altri dipendenti». Ma «qualora la modifica della mansione non sia possibile - si legge nella comunicazione della Sterilgarda - il lavoratore non verrà ammesso in azienda con sospensione della retribuzione sino alla ripresa dell’attività lavorativa». Occorre esaminare il tema in base alle norme vigenti.

Il codice civile

Qualcuno sostiene che l’imprenditore possa obbligare i dipendenti a vaccinarsi in base alla norma del codice civile (art. 2087) che gli prescrive di adottare tutte le «misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale» dei lavoratori. Questa norma generale, “di chiusura” della disciplina a tutela di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, impone al datore un continuo aggiornamento delle misure di prevenzione, in aggiunta a quelle sancite normativamente. Quindi – si dice – egli potrebbe pretendere la vaccinazione dei dipendenti per evitare responsabilità in caso di contagio negli ambienti lavorativi eventualmente causato da un dipendente non vaccinato.

Non si concorda con questa impostazione. Il legislatore (decreto legge n. 23/2020, art. 29-bis) ha disposto che gli obblighi derivanti dalla citata norma del codice civile si considerino assolti dal datore di lavoro mediante l’applicazione del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure di contrasto e contenimento del Covid-19, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra governo e parti sociali e aggiornato il 6 aprile 2021. Né il protocollo del 2020 né quello del 2021, intervenuto a campagna vaccinale avviata da mesi, prevedono la vaccinazione. Dunque, basta che il datore abbia correttamente adempiuto alle prescrizioni del protocollo per essere esente da responsabilità: non gli si potrà imputare la mancata imposizione del vaccino.

Va anche osservato che, secondo la Costituzione (art. 32), per imporre un trattamento sanitario come la vaccinazione serve una legge statale adottata nel rispetto delle condizioni previste dalla stessa Carta, nonché dalle pronunce della Consulta, previo bilanciamento del diritto alla salute del singolo e dell’interesse della collettività, nonché degli altri diritti coinvolti. Sarebbe singolare che il datore di lavoro potesse prescrivere un obbligo vaccinale senza la ponderazione di diritti e interessi cui è invece tenuto il legislatore.

Il Testo unico

Alcuni reputano che la vaccinazione anti Covid possa essere imposta dal datore di lavoro in base al Testo unico salute e sicurezza sul lavoro. Esso disciplina attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici, cioè nelle quali si rilevino condizioni di pericolosità immediatamente riconducibili alla lavorazione e agli ambienti ove essa si svolge. Qualora, a seguito della valutazione dei rischi, si riscontri tale esposizione, «il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari»: fra queste, «la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente».

Dunque, perché possa essere richiesta una vaccinazione al dipendente, serve comprovare un’esposizione al virus specificamente derivante dall’attività svolta. Ma in una pandemia il virus rappresenta un rischio generale di natura esogena, esterna all’ambiente di lavoro: può essere ovunque e per chiunque. Pertanto, si è oltre l’ambito di detta disposizione. E il datore di lavoro non potrebbe ricorrere a una misura specifica – la vaccinazione – in base a una norma sui rischi specifici per fronteggiare un rischio di altro tipo: la distorcerebbe a un fine – imporre un vaccino per un rischio non connesso alla lavorazione – a essa estraneo. Ciò sarebbe grave, considerata la pervasività di un trattamento sanitario come la vaccinazione, e forse non rispettoso del dettato costituzionale, che richiede una apposita base legislativa, frutto di un complesso bilanciamento, come detto.

Il Garante privacy

Il Garante privacy ha chiarito che misure restrittive di diritti e libertà fondamentali che implichino il trattamento di dati personali ricadono «nelle materie assoggettate alla riserva di legge statale», in base alla normativa europea in materia di protezione dei dati personali (Gdpr e Codice) e al Regolamento europeo sul “Digital Covid certificate”. Parimenti, le certificazioni attestanti la vaccinazione, la guarigione da Covid-19 o l’esito negativo di un tampone possono essere previste come «condizione necessaria per consentire l’accesso a luoghi o servizi» e altro solo in base a una norma di rango primario. Con specifico riguardo all’ambito lavorativo, circa la «possibilità di introdurre la vaccinazione anti Sars-CoV-2, quale requisito per lo svolgimento di particolari professioni o mansioni», l’Autorità ha ritenuto – per il principio di certezza del diritto e di non discriminazione – che la materia dovesse essere oggetto di una «regolazione uniforme con legge nazionale». Infatti, con legge è stata prescritta la vaccinazione quale «requisito essenziale» per chi esercita professioni sanitarie (decreto legge n. 44/2021). Nulla è, invece, stato previsto per altri lavoratori.

Dunque, appurato che per imporre il vaccino in ambiti lavorativi serve una legge nazionale – ciò anche per evitare situazioni a macchia di leopardo – «con riguardo a tutte le altre categorie di lavoratori, nel rispetto della disciplina di protezione dei dati, della disciplina nazionale di settore e delle norme (…) che garantiscono la dignità e la libertà degli interessati sui luoghi di lavoro (…) nonché di quelle emanate nel contesto dell’emergenza epidemiologica in corso, il datore di lavoro non può trattare i dati relativi alla vaccinazione dei propri dipendenti (inclusa l’intenzione di aderire o meno alla campagna vaccinale)». È legittimato a farlo solo il medico competente «nei limiti e alle condizioni» stabilite dalla disciplina in materia di sicurezza sul lavoro. Quindi, non mediante una «ricognizione generalizzata» dei dipendenti non vaccinati, ma con la particolare verifica delle condizioni di salute del singolo lavoratore ai fini della valutazione della sua idoneità alla specifica mansione.

Vaccinazione per categorie

Se il governo volesse introdurre la vaccinazione (o il green pass) nei luoghi di lavoro, avrebbe già una traccia da seguire, potendo prevederla come requisito per coloro i quali svolgono attività che comportano il costante contatto con il pubblico, indicati in via esemplificativa dall’Inail nei mesi scorsi: «lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/ banconisti» ecc.. Tra questi rientrerebbe anche chi lavora nei luoghi ove il green pass è condizione per l’accesso. Come osservato in articoli precedenti, vaccino, attestato di guarigione o tampone negativo non sono attualmente richiesti per chi opera a contatto con il pubblico al quale, invece, è imposta la certificazione verde. L’uso obbligatorio del pass diverrà effettivo dal prossimo 6 agosto. Serve che il governo colmi al più presto questa lacuna.

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