L’ultima scena non edificante, sull’iter di approvazione della manovra, è arrivata ieri, a poche ore dalla votazione finale. I ministri assenti alla Camera, durante l’esame degli emendamenti e degli ordini del giorno. C’era solo la sottosegretaria all’Economia, Lucia Albano, tra i banchi del governo. Un bis di quanto si era visto il giorno precedente nel corso della discussione generale: una compagine governativa non pervenuta.

Del resto la legge di Bilancio, approvata definitivamente a Montecitorio, è stato un film horror per l’esecutivo di Giorgia Meloni. Agli atti restano forzature procedurali, su tutte il “niet” agli emendamenti dei parlamentari e colpi di mano, come quello sulle pensioni tagliate ai dipendenti pubblici. Senza tacere delle retromarce sugli impegni assunti in campagna elettorale.

Tanto che il deputato meloniano, Federico Mollicone, ha dovuto rivendicare come il «più grande taglio di tasse della storia» la conferma della riduzione del cuneo fiscale. Un intervento a somma zero: dopo la finanziaria non ci saranno aumenti in busta paga per i lavoratori. Tra un infortunio e un altro, il via libera è arrivato quasi sul gong, a 48 ore dallo spettro dell’esercizio provvisorio. Anche perché l’opposizione ha evitato ostruzionismi.

Trailer di azione

Eppure, alla presentazione del provvedimento, Meloni, insieme al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, e al vicepremier Matteo Salvini erano gongolanti. Il trailer della finanziaria era quello di un action movie, per andare avanti a ritmo serrato. Abbattendo gli ostacoli lungo il percorso per mostrare la diversità rispetto al passato. Da qui la decisione di comprimere il raggio di azione dei deputati e dei senatori del centrodestra con il divieto di fare delle proposte emendative. Il tutto per arrivare a un’approvazione a metà dicembre.

Ma la sceneggiatura da pellicola di azione, confezionata a palazzo Chigi, si è trasformata in una commedia. A tratti surreali. Uno dei momenti clou è stato la nota del Mef che precisava come le bozze circolanti non fossero testi definitivi. Erano bozze, appunto. E pensare che al governo avevano garantito di voler evitare la corrida delle bozze. A quel punto è iniziata la fase dei litigi. Con le rivendicazioni del vicepremier Salvini sul ponte sullo Stretto e l’annuncio di un cambiamento di rotta sulle pensioni. La riforma Fornero è rimasta, in una versione peggiorata. C’è stato giusto un lifting per far gioire il leader della Lega sui social. Come in ogni commedia che si rispetti, altri attori in scena hanno animato la tenzone.

Forza Italia, capeggiata da Antonio Tajani, ha sollevato il polverone sulla cedolare secca per gli affitti brevi. Una misura che ha trovato una soluzione di compromesso, salvaguardando il primo appartamento messo in locazione.

Mannaia pensioni

Alla fine, a pagare dazio alla grande improvvisazione sono stati i dipendenti pubblici: migliaia di pensioni sono state tagliate. Anche i medici sono finiti sotto la mannaia, innescando la protesta della categoria, sfociata nello sciopero di inizio dicembre. È stata così individuata una soluzione parziale per limitare i danni. Il taglio resta. Quindi la commedia è diventata farsa. E la promessa di un timing preciso e rapido è lentamente evaporata. L’approdo in aula al Senato era calendarizzato per la prima metà di dicembre. Poi la data è slittata al 18 dicembre, quindi al 22, con l’ok giunto in seguito all’ennesima apposizione di una questione di fiducia.

In quelle ore c’è stata la pantomima che ha definitivamente fatto diventare la manovra un film dell’orrore. I senatori attendevano gli emendamenti del governo, che tardavano ad arrivare, mentre i relatori infilavano, qua e là, le solite mancette con le loro modifiche. Intanto, è stata respinta la proposta delle opposizioni di mettere 100 milioni di euro sul capitolo del contrasto alla violenza sulle donne. Le minoranze hanno fatto il possibile, prevedendo di investire tutta la loro dotazione, 40 milioni di euro, sul capitolo. I passaggi in aula a palazzo Madama e Montecitorio sono state formalità, i titoli di coda.

Vincitori e vinti

La partita della manovra ha creato, come spesso accade, vincitori e sconfitti. Salvini ha dovuto ingoiare un intervento sulla previdenza che riporta le lancette alla riforma Fornero. Almeno da un punto di vista di immagine ha portato a casa un miglioramento della versione iniziale. E soprattutto ha strappato il finanziamento della sua bandiera: il ponte sullo Stretto. Non sarà stato un trionfo, ma può rivendicare un successo. Così come può essere soddisfatto il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che si è salvato dalla bufera iniziale dei tagli al cinema, rivelati da Domani. Ha strappato una riforma del settore audiovisivo che rimette sotto il controllo del suo ministero le modalità di elargizione dei fondi. Un buon risultato è arrivato per il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, che quatto quatto ha ottenuto una serie di rafforzamenti dei poteri e un aumento delle risorse per l’organico. Dietro le quinte, tra gli attori meno noti, si è mosso con efficacia il sottosegretario al Mef, Federico Freni, posto a un certo punto a guardia della legge di Bilancio per evitare ulteriori battute d’arresto.

Chi esce sconfitto è invece Giorgetti. Aveva prospettato un intervento privo di impatto sui conti. Ha dovuto scrivere un provvedimento finanziato per oltre la metà in deficit (circa 14 miliardi su un totale di 24 miliardi di euro) e accettare una mini-revisione del Superbonus con un decreto ad hoc. Tajani, l’altro protagonista della questione Superbonus, ha limitato i danni, pur perdendo. Per dirla in termini calcistici ha scongiurato un’imbarcata. E Meloni? Il ko della manovra è stato rovinoso: da presidente del Consiglio deve intestarsi tutti gli elementi negativi, a partire dalle promesse disattese. Oltre ai contenuti, c’è poi l’iter procedurale: partito male e finito molto peggio rispetto alle iniziali ambizioni. Altro che record, la manovra è stata un concentrato di caos e nervosismi.

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