Comunque la si guardi e nonostante le rassicurazioni della ministra per le Riforme, Elisabetta Casellati, la sua riforma del premierato toccherà, ridimensionandole in maniera incisiva, le prerogative del presidente della Repubblica.

La riforma è stata definita «light» da Casellati, perchè toccherà soli tre articoli della Costituzione – l’88 sul potere di sciogliere le camere, il 92 con la prerogativa di nomina del presidente del Consiglio e il 94 sulla mozione di fiducia – che però sono il cardine del ruolo del Colle nel rapporto con governo e parlamento.

Se manca ancora la versione definitiva del testo uscito ieri dal vertice di maggioranza, che arriverà poi venerdì in consiglio dei ministri, la sintesi che ne ha fatto il vicepremier Matteo Salvini è quantomai efficace: «Niente governi tecnici, ribaltoni, cambi di maggioranze e partiti al governo, niente nomine di nuovi senatori a vita», è il riassunto su X.

Tradotto: il presidente della Repubblica non potrà più nominare un presidente del Consiglio che non provenga dalla maggioranza uscita dalle urne come è stato nel caso dei governi Monti e Draghi; dopo una crisi di governo le consultazioni non potranno più proporre nuove maggioranze costruite in parlamento come nel caso del passaggio dal governo Conte 1 al Conte 2; i presidenti della repubblica non potranno più nominare senatori a vita, aggiungendo scranni in parlamento non vincolati dal mandato elettorale.

A questo si sommeranno alcuni elementi che dovranno ricadere in una nuova legge elettorale (altra sfida improba), che preveda l’elezione diretta del premier con una unica scheda e un sistema elettorale maggioritario con premier di maggioranza al 55 per cento.

I passi politici

Casellati l’ha definita la «riforma delle riforme» e l’iter è complesso e soprattutto lento. Le riforme costituzionali, infatti, richiedono un doppio passaggio in parlamento e con tutta probabilità a questa mancherà la maggioranza qualificata, con il risultato che la legge potrà essere sottoposta a referendum prima di entrare in vigore. Con tutti i rischi del caso, come insegna il precedente di Matteo Renzi che trasformò la sua riforma costituzionale in un quesito fallimentare su se stesso e il suo governo.

I più ottimisti sperano di farle fare già il primo giro di boa alla Camera entro le europee: complicatissimo ma tecnicamente non impossibile, anche se la strada della riforma è lastricata di insidie politiche.

La maggiore sarà la riforma dell’Autonomia, già incardinata e anche dispersa in parlamento, il cui testo dovrebbe a questo punto accelerare per procedere di pari passo, come da richiesta della Lega.

Al netto dei rischi già prospettati dalle opposizioni, con il Pd con Andrea Giorgis che parla di «democrazia ridotta alla scelta del capo», la questione dei tempi è nodale. Il testo, se mai verrà approvato entro la fine della legislatura e ammesso che il parlamento non vi apporti modifiche sostanziali, contiene l’incognita della sua entrata in vigore, che nel testo dovrà essere prevista.

In altre parole, se scattasse in vista delle prossime elezioni politiche e dunque ancora in costanza di settennato di Sergio Mattarella, che vedrebbe ridimensionate in modo sostanziale le sue prerogative.

La posizione del Colle

In questo scenario ancora incerto, il Colle rimane a osservare in silenzio. Rigido nel rispetto del suo ruolo e di quello del governo, Mattarella non intende entrare nel merito di riforme costituzionali che riguardano le funzioni presidenziali. Fonti vicine al Quirinale, infatti, chiariscono come non ci sia stato alcun abboccamento formale: nè per richieste di eventuali modifiche, ma nemmeno un interessamento diretto rispetto alla bozza.

Certo è che un passo verso il Colle potrebbe invece venire dalle forze politiche di maggioranza, magari per confrontarsi a livello di tecnica politica o per uno scambio di pareri. In questo caso, Mattarella sarebbe come sempre disposto a porsi in posizione di ascolto nei confronti di palazzo Chigi. 

A chi tocchi il primo passo – al governo, se lo ritiene utile, e non al Quirinale -può apparire una sfumatura forse, ma è un elemento decisivo nel preservare l’equilibrio istituzionale tanto caro alla presidenza della Repubblica.

Per il governo, in questa fase così complessa nello scenario internazionale e difficile a livello di congiuntura economica, mantenere aperto e per quanto possibile disteso un dialogo con Mattarella sarebbe importante. Il Colle, infatti, rimane la figura istituzionale di garanzia della stabilità italiana, con un riconoscimento sia a livello di diplomazie straniere che di fiducia dei cittadini.

Per questo metterlo in discussione - mutilandone le prerogative e procedendo in modo unilaterale - non può essere il capriccio di una fase politica per intorbidire il dibattito pubblico, allontanandolo dalle difficoltà economiche.

Il rischio infatti è che questa riforma, che pure avrà tempi lunghi ed esiti incerti, non sia l’inizio della «Terza repubblica» che vorrebbe Meloni ma invece un requiem per il governo.

 

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