Alle Camere il ministro degli Esteri parla della partecipazione italiana alla «forza internazionale di stabilizzazione». Sì delle opposizioni, che rilanciano i “due Stati”
«L’Italia è pronta a fare la propria parte, forte della sua riconosciuta esperienza nei contesti internazionali complessi. Il Parlamento sarà coinvolto in tutte le decisioni che riguarderanno la nostra partecipazione, e mi auguro che su questo tema si possa trovare unità tra tutte le forze politiche».
All’informativa sul “Piano di Pace” in Medio Oriente, il ministro degli Esteri Antonio Tajani prova a sondare le opposizioni sulle prossime mosse del governo su Gaza. In realtà in queste ore nessun paese, tantomeno europeo, è in condizione di inviare un contingente in una zona in cui la tregua è ancora fragilissima. Ma Tajani deve inseguire l’ipotesi che Giorgia Meloni ha già lanciato dal vertice di Sharm el Sheik: l’invio dei nostri carabinieri.
Un’ipotesi verosimile: l’Arma è già presente al valico di Rafa e a Gerico, in Cisgiordania, con otto carabinieri inquadrati nella Forza di gendarmeria europea nell’ambito della missione Ue Eubam. Rafforzare questo dispositivo, o attivarne un altro, per ora sono solo parole: per ora a Gaza non c’è pace né tregua.
In realtà i primi a non prendere sul serio il ministro sono quelli della maggioranza. Alla Camera, in una seduta richiesta anche da Fdi, i banchi della destra sono vuoti, ad eccezione di quelli di Forza Italia. Eppure la seduta era stata chiamata, dal lato destro, per rivendicare il successo dell’amico Trump.
Un successo che, ammette Tajani, «è ancora legato a un filo». Nel pomeriggio il ministro presiede a Palazzo Chigi la task force che disegna una prima strategia per guadagnare all’Italia un ruolo nella ricostruzione della Striscia. Ma in aula è sulla «forza internazionale di stabilizzazione» il passaggio più delicato.
A destra, la Lega è sempre scettica sulle spese militari (nel pomeriggio ripeterà il suo scetticismo, «meglio spendere in agricoltura»). Sul Medio Oriente le opposizioni non hanno mai condiviso le scelte di Palazzo Chigi. Sull’ultima risoluzione, l’approvazione del piano Usa, si sono astenute (alcuni centristi hanno votato sì). Ma poi, dalla piazza, alla vigilia del voto toscano, la premier ha strillato che «le opposizioni sono più fondamentaliste di Hamas».
Sì con caveat
Per il momento le opposizioni «più fondamentaliste di Hamas» non chiudono la porta. Anzi, rispondono sì, tranne M5s. Lo fanno Azione, Più Europa e Iv. Lo fa anche Peppe Provenzano, responsabile esteri dem, a Montecitorio: «Se servirà una missione di peacekeeping, noi non solo siamo pronti a discuterne, ma diciamo che dobbiamo esserci. L’abbiamo proposta già nel novembre 2023. Ora si è aperta una breccia che non va richiusa: deve passarci la diplomazia e la politica».
Del resto, ricorda, «nel 2006 fummo noi a spingere l'Europa e l’Onu alla pace in Libano. Non è detto che sarà così in futuro, dipende dalle scelte che faremo sulla questione palestinese, sul riassetto degli equilibri regionali in Medio Oriente». Un pezzo della ricostruzione è il riconoscimento dello Stato di Palestina, «alla quale non si arriva per inerzia».
Lo ripete al Senato il capogruppo dem Francesco Boccia: «Se l’Italia si impegnerà in una missione di peace keeping con l’Onu, se si deciderà finalmente che medici, infermieri e giornalisti possono tornare a Gaza, noi ci saremo». Boccia anticipa una nuova mozione delle opposizioni sul riconoscimento della Palestina. Ma la discriminante per il sì al contingente sarà l’egida dell’Onu. Il diritto internazionale, che per Tajani «è importante ma fino a un certo punto», dovrà ricominciare a essere importante.
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