Da topi da biblioteca a nuove divinità televisive. Da specialisti di malattie tropicali a tuttologi che concionano su crisi di governo, recessioni economiche e partite di calcio della Serie A. L’Anno Uno dell’Era dei Virologi è agli sgoccioli ma si teme che, a causa di mutazioni inglesi e terze ondate date per sicure, i nuovi protagonisti dello star system restino sotto i riflettori anche nel 2021. E, per chi sarà capace di autoriciclarsi nel post-Covid, chissà per quanto ancora.

L’invasione di veterinari e microbiologi nelle vite degli italiani è un’evidenza che non ha confronti con il resto del pianeta. Gli esperti appaiono sui media e sui giornali con un Rt catodico proporzionale all’andamento di morti e contagiati anche in altri paese, e dappertutto vengono interpellati per fornire indicazioni, rassicurando o ammonendo su mascherine e distanziamento.

Ma solo in Italia hanno occupato massivamente i palinsesti come una falange organizzata, e conquistato l’immaginario collettivo di una comunità capace ormai di riconoscere al primo istante le felpe tricolori di Fabrizio Pregliasco o gli interni della casa in Florida di Ilaria Capua.

Siamo l’eccezione: in Germania parla ai cittadini solo il capo dell’Istituto Koch, a Parigi i quotidiani dedicano al Covid pochi spazi dell’impaginato badando a sentire solo fonti mediche ufficiali, in Gran Bretagna sulla Bbc si esprime il chief medical officier di Boris Johnson, e pochissimi altri. A Roma al solista si preferisce la grancassa, e alla voce di Giovanni Rezza, direttore al ministero della Salute e sulla carta l’unica deputata a dover parlare urbi et orbi, si sovrappongono ogni giorno decine di interventi con polemiche annesse di colleghi in cerca d’autore.

Un caos virologico che ha contribuito all’infodemia in cui siamo impantanati, una polifonia pericolosa che porta confusione. Non solo tra i cittadini, ma pure nelle scelte dei decisori. Sia a livello centrale che regionale ogni leader o partito s’è fatto i suoi virologi di riferimento, a secondo se si tende per la linea rigorista, una moderata o per quella ottimista-negazionista.

Spiegare ad osservatori esterni come mai ai vecchi cliché nazionali abbiamo aggiunto la fissa virologica non è impresa facile. I fan che non si perdono nemmeno una lezione sull’immunità di gregge di Antonella Viola o dibattono sulle consulenze a pagamento di Roberto Burioni sottolineano che oggi gli esperti sono “fondamentali”, in quanto unici Virgilio in grado di illuminarci la via nel buio pandemico. Gli antipatizzanti sostengono al contrario che la loro moltiplicazione sia frutto soprattutto del revanchismo narcisistico di una categoria che ha colto l’attimo, e che ha tracimato nella vanagloria.

Se la teoria dei 15 minuti di celebrità di Andy Warhol è sempre valida, è certo che la sovraesposizione patologica è stata agevolata dalla struttura con cui sono declinati i talk-show nostrani. Gli autori tranne qualche raro caso da tempo hanno deciso di trasformare gli ospiti in personaggi del tutto simili a quelli dei prodotti seriali. L’obiettivo è banale: avere più engagement possibile. Il telespettatore che si sintonizza sul canale, ma anche l’utente che scrolla i siti di news, deve riconoscere il volto dell’invitato nel minor tempo possibile, in modo che entri in una trama che già conosce a memoria e non cambi canale. Qualità, standing e autorevolezza del convocato sono, in quest’ottica, elementi secondari.

Nel 2020 alla solita banda di politici e opinionisti che “fanno audience” il Covid ha aggiunto così il virologo. Declinato con le regole suddette e spalmato dalle otto del mattino alle ore piccole, è  chiamato non a esporre una seria comunicazione del rischio (elemento decisivo durante crisi sanitare gravi come la nostra) alla popolazione come si fa nel resto dell’occidente, ma ad alzare lo share.

L’esercito è variopinto, ed è composto da più uomini che donne (nella seconda ondata le proporzioni  sono state maggiormente rispettate), da medici che hanno azzeccato ogni previsione (come Andrea Crisanti e Massimo Galli) e da negazionisti a cui si è dato la medesima ribalta. “Quando è moda è moda”, dice Gaber, e così un paese devastato da oltre 70 mila morti è riuscito pure a spaccarsi tra virologi nordisti e scienziati sudisti: degni di nota i violenti scontri social tra lombardi e campani su quale esperto avesse avuto per primo l’idea di usare un farmaco salvavita, e la difesa partigiana di scienziati non in quanto bravi e capaci, ma perché corregionali. Il caso di Giulio Tarro, il mancato Nobel napoletano che ha querelato Burioni, è emblematico: il campanilismo è di casa anche nella nuova Virolandia.

In platea si trova di tutto. Esperti che provano a ragionare con competenza (da segnalare la biologa Barbara Gallavotti), passando per gli “istituzionali” e le menti del comitato tecnico scientifico (il loro borsino cambia a seconda del momento, con Franco Locatelli e Silvio Brusaferro in discesa, Walter Ricciardi ora in gran spolvero) fino al gruppo agguerrito di Maria Rita Gismondo, Matteo Bassetti e Alberto Zangrillo, che hanno sbagliato quasi ogni previsione ma vengono comunque intervistati una mezza dozzina di volte al giorno.

Il 2020 si concluderà senza veglioni in piazza, per ovvi motivi di sicurezza. Ma se non ci fossero state limitazioni è probabile che qualche esperto vip sarebbe stato invitato a fare un conto alla rovescia o costretto a un trenino in diretta tv. Quando il Covid sarà sconfitto, lo capiremo anche dall’andamento del fenomeno. Qualcuno si lancerà in politica (il pugliese Lopalco è stato il primo, Guido Bertolaso forse proverà la scalata al Campidoglio) e altri resteranno per molti lustri nei pixel dei nostri schermi ma la massa – quando i vaccini trionferanno sul virus – scomparirà e tornerà nei laboratori. Almeno fino alla prossima epidemia.

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