I due si studiano a distanza da prima dell’estate, consapevoli che la legge di Bilancio e soprattutto la campagna elettorale per le europee porteranno inevitabilmente allo scontro. Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono alleati ma anche avversari interni, ognuno con una sua agenda in vista delle prossime scadenze.

Il passo, fino ad oggi, lo ha dettato la premier, accentrando la regia di ogni scelta strategica a palazzo Chigi: rinviando i dossier più sensibili o rivendicandone la maternità e lasciando pochissimo margine di manovra agli alleati e in particolare ai ministri leghisti, limitando in questo modo il loro leader.

I ministri frenati

É stato così con la riforma dell’autonomia di Roberto Calderoli, che Meloni ha lasciato correre in consiglio dei ministri salvo poi legarla a quella del presidenzialismo, frenandola fino quasi ad arenarla in parlamento. Con la norma sugli extraprofitti delle banche, la premier ha lasciato che Salvini se la intestasse pubblicamente per poi smentirlo con tre interviste in cui si attribuiva formalmente la decisione e l’iniziativa, relegando il leghista all’Economia, Giancarlo Giorgetti, a mero esecutore materiale.

L’ultimo caso ha riguardato la gestione dei migranti, che Meloni ha di fatto avocato affidandone la gestione strategica al sottosegretario con delega ai servizi segreti, Alfredo Mantovano, che si sta progressivamente affiancando al ministro leghista Matteo Piantedosi. Al punto che in consiglio dei ministri Meloni ha comunicato la convocazione una volta in settimana a palazzo Chigi del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, con il ruolo di coordinamento dell’emergenza migratoria. Riunioni che avverranno sotto la direzione di Mantovano e da cui Salvini - che sul tema ha improntato la costruzione del suo profilo politico – è formalmente escluso perchè il suo ministero, quello delle Infrastrutture, per statuto non siede nel comitato.

A fronte di questi segnali inequivocabili, Meloni ha aggiunto i paletti in vista delle finanziaria: con pochi denari da spendere, la premier ha avocato a sè la responsabilità politica di stabilire a cosa saranno destinati – taglio del cuneo fiscale e aiuti alle famiglie – lasciando ai ministri l’onere opposto di una «spending review» dei loro dicasteri.

Confini strettissimi, entro i quali non trova spazio nessuna delle misure caratterizzanti per la Lega: dalla cancellazione della riforma Fornero alla flat tax, fino al ponte sullo Stretto e all’autonomia differenziata che ridurrà il gettito destinato alla fiscalità generale.

La pistola sul tavolo

La strategia di Meloni sembra tracciata: occupare tutto lo spazio politico in vista delle elezioni europee con l’obiettivo elettorale del 30 per cento, mai dichiarato pubblicamente ma che i suoi fedelissimi ritengono raggiungibile. FdI intende costruire una campagna sui temi che la premier ha messo al centro della finanziaria: taglio delle tasse e soprattutto aiuti alle famiglie, scientemente tenendo fuori i cavalli di battaglia che invece farebbero comodo alla Lega.

Con i ministeri tenuti a guinzaglio corto, Salvini sta ragionando sulle contromosse. Tatticamente si è avvicinato fino ad adombrare una candidatura per il generale Roberto Vannacci, autore del libro che ha imbarazzato i vertici militari ma che solletica l’estrema destra e dunque potrebbe rubare elettorato a Meloni. Politicamente, invece, ha scelto il passo di lato. Meloni intende escludere la Lega nella gestione migratoria? «Vedremo cosa sapranno fare loro, con noi il numero degli sbarchi era diminuito», è il ragionamento di un dirigente leghista. L’argomento sarà al centro della campagna europea e Salvini intende continuare ad utilizzarlo, potendosi permettere anche qualche eccesso in più visto che non sarà direttamente coinvolto nella gestione. Del resto, si riflette in casa Lega, alle europee si vota con sistema proporzionale, ogni partito deve mostrare agli elettori le proprie specificità e per Salvini è vitale ritornare sulla doppia cifra, almeno al 10 per cento. Senza contare che ogni partito dell’attuale maggioranza fa parte di una diversa “famiglia” europea.

Salvini dovrà stare attento a tirare la corda, giocando a fare l’opposizione a FdI. Le avvisaglie sarebbero state notate già nell’ultimo consiglio dei ministri: «Meloni tiene la pistola carica sul tavolo», dice una fonte molto qualificata di Palazzo Chigi a Domani. «Non ha nessun problema a sparare se qualcuno tira troppo la corda». Fuor di metafora: l’argomento che la premier utilizza per evitare logoramenti è quello di minacciare i suoi alleati (deboli) il ritorno anticipato alle urne. Sul modello dello spagnolo Pedro Sanchez.

Il ritornello è rimasto lo stesso dei giorni difficili della scelta dei ministri: quell’«io non sono ricattabile» che Meloni considera la premessa di tutte le sue decisioni politiche. Di questo rimane convinta anche ora che guida l’esecutivo da quasi un anno. Se la Lega tentasse di sabotarla sottobanco o puntasse a logorarla, lei sarebbe pronta a staccare la spina. Certa di uscire ancora più forte da nuove elezioni, mentre gli alleati ancora più deboli.

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