Matteo Salvini ha un problema: deve capire da che parte stare. La questione è sempre la stessa, che taglia in due la Lega da anni, tra populisti e nordisti, salviniani e giorgettiani, storici e acquisiti. E il “capitano” – anche se il soprannome appartiene a una stagione tramontata insieme all’estate 2019 sulla riviera romagnola – deve farsi nocchiere per decidere da che parte portare la sua nave. 

La rotta sta cambiando, almeno a giudicare dalle ultime scelte comunicative del vicepremier, che in estate ha deciso di dismettere i panni del ministro efficiente campione di inaugurazioni che aveva fatto suo nei primi mesi di governo.

Il ritorno del populismo

Niente più partito del fare contro partito “dei no”, espressione sopravvissuta all’ultima esperienza di governo della Lega, quella dell’esecutivo Conte I, quando a ostacolarlo (dal suo punto di vista) c’erano i grillini. Salvini torna ai proclami populisti, alla castrazione chimica, alle dirette social che gli avevano garantito nel 2019 consensi che andavano oltre il 30 per cento. Anche se il rischio di esagerare c’è: a lanciare moniti piuttosto chiari per i suoi standard è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella venerdì scorso, rivolgendosi tra gli altri a coloro che hanno preso le parti del generale Vannacci. Un onere che si era prontamente caricato in spalla proprio Salvini. 

Però, adesso, dei consensi del 2019 il ministro delle Infrastrutture avrebbe disperatamente bisogno. I tagli dei nastri – anche della più dimenticata delle rotonde del paese – non stanno avendo sui sondaggi lo stesso effetto che gli garantivano nel 2019 gli annunci sulla chiusura dei porti e la svolta securitaria che voleva portare a casa da ministro dell’Interno. All’8,9 per cento delle elezioni del 2022, Salvini in quasi un anno di governo è riuscito ad aggiungere neanche un punto percentuale di consenso.

Secondo l’ultimo dato disponibile, quello di Swg che risale al primo agosto, la Lega oggi porterebbe a casa appena il 9,7 per cento. Niente effetto luna di miele come quello che ha portato Fratelli d’Italia oltre il 30 per cento per un periodo, niente bonus nostalgia come quello di cui ha potuto approfittare Forza Italia con la morte di Silvio Berlusconi. Che, peraltro, per il momento vede l’eredità del suo fondatore, sia in termini di consensi che di parlamentari da “sfilare” aggredita più dal centro che dai partner di governo. Salvini ha deciso, almeno per adesso, di rimandare l’offensiva sul voto moderato, anche se in ambienti del Carroccio si sa che bisognerà intervenire presto per non lasciare tutto il bottino a Matteo Renzi e Giorgia Meloni.

Le misure storiche pagano

Se la Lega torna ai vecchi cavalli di battaglia come la castrazione chimica lo fa anche memore del fatto che l’ultima campagna sui temi identitari, quella sull’autonomia, a febbraio ha permesso di difendere la Lombardia, regione simbolo da difendere a tutti i costi anche dagli alleati del centrodestra. Di qui, la necessità di portare in Consiglio dei ministri la riforma Calderoli prima della data del voto e spingere per accelerare. 

Certo, da quel momento in poi di passi avanti il testo ne ha fatti pochi. Anzi, il ministro ha visto disfarsi sotto i suoi occhi la commissione di esperti che avrebbe dovuto risolvergli la grana dei Livelli essenziali di prestazione, da definire prima della cessione delle materie oggi di competenza dello stato centrale alle regioni. 

Attualmente la riforma è ferma, zavorrata anche dalla lentezza con cui procede il progetto gemello caro a FdI, il presidenzialismo. Il cammino parallelo imposto a una legge ordinaria e a una di riforma costituzionale ha rallentato tutto, e alla ripresa l’autonomia non sarà certo tra le priorità dell’esecutivo. 

Ma proprio su questo tema Salvini rischia di vedersi presentare il conto dai presidenti di Regione del nord. Sulla concordia ostentata con Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia oltre che della Conferenza stato-Regioni che ha incontrato al meeting di Rimini nei giorni scorsi si allunga l’ombra di una dichiarazione ben più drastica dell’omologo veneto. A inizio agosto, Luca Zaia lo aveva detto senza mezzi termini: «Se l'autonomia non arrivasse nella tempistica del 2024 vuol dire che abbiamo fallito come obiettivo. Ma non fallisce la Lega, fallisce il governo». Il messaggio è chiaro: «L’autonomia è nel programma di governo. Non farla significa venire meno a un patto. E quando il patto si rompe non si sa mai da che parte vanno i cocci».

Insomma, bene il populismo, che permette di recuperare voti a destra, ma per i “governatori” ci vuole un segnale. Non è un caso che Fedriga abbia raccomandato a Rimini di non lasciare che la questione dei Lep diventi un paravento per uno stop. Oppure che il presidente della Lombardia Attilio Fontana abbia apprezzato  «la maniera determinata» con cui il governo sta affrontando la materia. E che, pur essendo l’unico sul palco senza giacca e cravatta e senza calze, Salvini si sia presentato in veste quasi istituzionale.

Chi conosce bene la Lega sa che il consenso dei territori è l’unico elemento che può davvero mettere in difficoltà la leadership del ministro: se da vicepremier non sarà in grado di rilanciare il progresso del testo il suo posto sarà a rischio. Possibilità che si apre anche nel caso in cui dovessero esserci ulteriori problemi con il Pnrr.

I ritardi si accumulano e la messa a terra dei fondi europei, reclamati a gran voce dai territori leghisti, si allontana di giorno in giorno. Con una finanziaria caratterizzata da un margine di manovra strettissimo, i fondi europei rischiano di acquistare sempre più importanza. Se i soldi da spendere non li mette lo stato, che almeno arrivino quelli europei. 

La riscossa di Pontida

Il fischio d’inizio della nuova stagione, in equilibrio precario tra affidabilità e spacconeria populista di papeetiana memoria, sarà la festa di Pontida. Dal pratone partirà la campagna elettorale per le europee. Che punta a recuperare tutti i voti di chi non ha avuto dalle prime misure di Giorgia Meloni la prova di un governo di vera destra. Quindi, ben vengano gli slogan populisti che, dal punto di vista dei leghisti, smascherano la disponibilità della presidente del Consiglio a scendere a patti con l’Unione europea

Soprattutto su un tema su cui Salvini ha provato a stabilire un benchmark ai suoi tempi al Viminale, l’immigrazione. Quella degli sbarchi sarà l’altra gamba, insieme ai temi identitari come l’autonomia, su cui i leghisti cercheranno il riscatto alle europee. La dicotomia tra gli amministratori locali che lamentano l’assegnazione dei migranti anche contro la loro volontà e i prefetti che eseguono le manovre del governo si sta facendo pesante, e il Carroccio non farà nulla per non cavalcare lo scontento dei sindaci, che dovranno anche fare i conti con la crisi economica e l’emergenza abitativa. 

«Aspettiamo che la gente rientri dalle vacanze» dice un uomo della Lega, «e poi il problema verrà a galla. I sindaci sanno che i porti si possono chiudere, come aveva fatto a suo tempo Salvini, e non si accontenteranno di quello che sta facendo per loro Meloni, limitata dagli accordi con l’Unione europea». 

Anche perché i voti a destra servono. I mezzi a disposizione della finanziaria si assottigliano di giorno in giorno, mangiati da inflazione e incombenze emergenziali. Resteranno dunque pochissimi fondi da mettere a disposizione delle categorie di riferimento dell’elettorato leghista per fidelizzarlo e ampliare i consensi, e il rischio per la Lega di rimanere sotto il 10 per cento, confida un colonnello, inizia a farsi tangibile. 

Resta dunque solo da puntare forte sulla carta dei “ribelli” della destra autentica. Una strategia seguita a parole con slogan populisti e nei fatti con la fedeltà al gruppo di riferimento della Lega in Europa, Identità e democrazia. Quel circolo di estrema destra che i Popolari, interessati ai voti del gruppo di Meloni, vedono come fumo negli occhi.

Mentre i Conservatori fanno melina, soprattutto Forza Italia non perde occasione per rivendicare la propria distanza dagli alleati di Salvini, AfD e Rassemblement national in testa, con cui non vuole allearsi. Ma ultimamente è Salvini a ribaltare la narrazione, sfidando i veti di Antonio Tajani: «Mille volte meglio Le Pen che l’Europa dei socialisti e di Macron». Tirare la corda su questo tema per Salvini è una strategia win-win: se alla fine i Popolari dovessero cedere, potrà dire di aver spuntato l'ingresso di Id nella nuova maggioranza europea, altrimenti cavalcherà la narrazione dei sovranisti «del buonsenso» che non si piegano, a differenza delle altre famiglie, ai proclami delle élite. 

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