«L’Italia non si volterà dall’altra parte», gli applausi ancora una volta alle camere si sprecano, il presidente Mario Draghi incassa l’unità nazionale su una risoluzione comune di maggioranza a cui si aggiunge l’opposizione di Fratelli d’Italia, anche se i numeri al Senato non sono smaglianti (244 sì e 13 no), e alla Camera il voto del testo per parti separate consente di rafforzare la condanna alla Russia con i sì anche di chi dice no alle armi.

Ieri alle due comunicazioni sul conflitto tra Russia e Ucraina, al Senato alle 10 e alla Camera alle 15.30, i capigruppo di maggioranza e quelli di FdI firmano il testo comune. Ma nel coro ci sono alcune stecche. Il parlamento è «inevitabilmente compatto», dice il senatore del Pd Alessandro Alfieri.

Supera senza ripensamenti lo scoglio formale della decisione di inviare armi ed equipaggiamenti di «difesa», armi «letali», insomma che sparano e ammazzano, con il voto alla risoluzione e non in una seduta dedicata.

Draghi spiega che «l’Europa ha dimostrato enorme determinazione nel sostenere il popolo ucraino, e nel farlo ha assunto decisioni senza precedenti nella sua storia, come quella di acquistare e rifornire di armi un paese in guerra». Anche l’Italia da ieri, perché «a un popolo che si difende da un attacco militare e chiede aiuto non è possibile rispondere solo con incoraggiamenti e atti di deterrenza». Il parlamento, nella risoluzione, dice sì: oltre al sostegno economico, a «un programma straordinario di accoglienza dei profughi», chiede «l’ulteriore sospensione del Patto di stabilità», «un fondo europeo compensativo per gli stati maggiormente penalizzati dalle sanzioni», accetta «le strategie di diversificazione degli approvvigionamenti energetici», cioè rinnovabili e non; ma soprattutto accetta «la cessione di apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di esercitare il diritto alla legittima difesa e di proteggere la sua popolazione».

Per schierarsi con la scelta il segretario del Pd Enrico Letta cita il teologo Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti. E rincara: «Noi non saremo i caschi blu di Srebrenica che si voltarono dall’altra parte», «oggi sta a noi meritarci il privilegio di essere nati in Europa».

È la scelta di mandare armi che, almeno per ora, mette più in difficoltà Lega e M5s. Ed è per chiedere di tenere i propri parlamentari che il giorno prima Draghi aveva chiamato Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Alla fine i no sono pochi, e anche gli assenti non giustificati. Ma a spulciare l’elenco si incontrano nomi pesanti: al Senato vota contro Vito Petrocelli, presidente M5s della commissione Esteri. Fa professione di pacifismo, rovinata però dalle sue note relazioni con l’ambasciata russa. Da parte M5s viene fatta filtrare l’intenzione di rimuoverlo dalla presidenza della commissione, ma non è una cosa seria, un presidente o si dimette o è intoccabile.

Nelle file leghiste c’è una manciata di assenti – fra loro c’è Armando Siri, già uomo chiave delle relazioni fra il suo partito e il Cremlino – ma la misura dell’imbarazzo del partito fin qui apertamente filo putiniano e tuttora legato a un accordo con l’organizzazione dell’autocrate Russia unita, basta e avanza il discorso di Salvini: il mandato a Draghi «è totale» ma lo è altrettanto lo scetticismo verso l’idea di armare i resistenti ucraini. Certo, «c’è un aggredito e un aggressore», ma «se alle bombe si risponde con le bombe non si sa mai dove si va a finire». Sarebbero ragioni ragionevoli, se non fosse che Salvini esageri nell’accreditarsi come pacifista, cita troppe volte l’incolpevole papa Francesco.

Chiede di non fare polemiche di bottega, ma poi non resiste alla tentazione di citare incontri di esponenti del centrosinistra con Putin, «Letta, Prodi, Renzi, Gentiloni». Fuori dall’aula il Pd si scatena. Enrico Borghi: «Abbia un minimo di pudore chi disse “cambio due Mattarella con mezzo Putin”». Franco Mirabelli: «Niente lezioni da chi frequentava l’Hotel Metropol e dichiarava di sentirsi più a casa sua a Mosca che in alcuni paesi europei».

Draghi è durissimo sull’invasione, ma deve fare i conti con una maggioranza ancora più ampia e conflittuale di quella del suo governo: FdI vota sì ma contesta le scelte “troppo deboli” della Nato, e la leader Giorgia Meloni ritiene «grotteschi» due stati di emergenza in contemporaneo, uno sanitario e uno per la guerra e sfotte la «capacità diplomatica» di palazzo Chigi.

Draghi invita tutti a non fare i conti «con sé stessi e con gli altri». «È il momento di fare i conti con la storia, non quella passata ma quella di oggi e di domani». Forse per questo all’ultimo decide di sbianchettare dal suo discorso il paragone fra Putin e Hitler: «L’aggressione della Russia ci riporta indietro di ottant’anni, all’annessione dell’Austria, all’occupazione della Cecoslovacchia, all’invasione della Polonia». Il passaggio si legge nelle bozze, ma non viene pronunciato.

Risuonano interventi pacifisti, Leu soffre e vota sì, Sinistra italiana vota no: Nicola Fratoianni ricorda «i 150 milioni di euro, armi italiane vendute alla Russia» dai governi «Berlusconi e Renzi» e «oggi impiegate nell’aggressione». No anche da molti ex M5s, compresi quelli della recente componente Manifesta. Da adesso le piazze pacifiste italiane segneranno una distanza con la scelte del parlamento.

Draghi è convinto che l’Europa sia di fronte a «un gran cambiamento»: «Oggi c’è più Europa. La risposta è stata pronta, ferma, forte». Ma deve elencare i problemi che l’Italia ha davanti. Di approvvigionamento energetico innanzitutto; il parlamento accetta di fatto un passo indietro nella strada delle rinnovabili. La guerra «mette a repentaglio la realizzazione di alcuni obiettivi del Pnrr», ammette il ministro Giancarlo Giorgetti. Serviranno sacrifici avverte Emma Bonino: «Spero che ripeteremo a ogni dibattito: cari italiani ci saranno dei costi da pagare. Questo per evitare che poi ci siano dei distinguo». C’erano prima e ci saranno ancora di più per il governo Draghi. L’unità nazionale c’è, ma come la pace in Ucraina fino a qualche giorno fa, è fragile e non è duratura.

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