Se mi concentro su ciò che provo, osservo che il mio più profondo desiderio politico è tendere la mano all’essere umano in quanto tale. Un modo di sentire condiviso, con conseguenze apparentemente paradossali. Cresce la diffidenza nei confronti del politico di professione, da un lato si chiede la sua attenzione, dall’altro sembra quasi che la politica dei partiti venga considerata insufficiente per proteggere gli esseri umani, perché come può una persona “di parte” fare l’interesse di tutti? Uso di proposito il termine “proteggere”. In un’epoca di paura, la domanda di essere protetti in quanto esseri umani è l’altra faccia del securitarismo.

Lontananza

Interrogo il mio desiderio. Mi viene in mente il romanzo Io ci sarò di Kyung-Sook Shin, il passo in cui la protagonista ricorda, nei giorni di una terribile febbre, una mano fresca sulla fronte, un refrigerio profondo, la malattia che scema, sbiadisce, la guarigione. Quante volte avrei dato tutto per il tocco di quella mano, quante volte ancora la sognerò. Negli anni in cui ho frequentato il Centro diurno della mia provincia per adolescenti con disagio psichico, ho confrontato questo dolore con quello di tanti altri ragazzi sofferenti. La politica, qui, non esisteva se non come desiderio di mettere fine al dolore.

Era il biennio 2015-2017. La politica nazionale allora era eccezionalmente distante, sia perché ci ignorava, come sempre, sia perché era difficile contestarla, e questo invece era insolito. Le larghe intese, il renzismo, il post-renzismo, il governo era bilanciato su un centrismo esasperato e allo stesso tempo di ostentata, apparente moderazione. È difficile contestare una politica che non commette gesti plateali e che a parole sostiene di essere dalla tua parte. Era una politica che ci spingeva, con volto placido, a sperare, e poi ci schiantava al suolo. Era quella, non quella del 2022, la politica che decise di finanziare i lager libici. Morigeratamente.

Quella firma, per noi, chiuse anche sul piano simbolico l’incubo della legislatura 2013-2018. L’abbandono assoluto di chi non ti vede e si rende a sua volta invisibile, di chi sostiene di essere dalla tua parte e ti tradisce, e la silenziosa risoluzione nello schiacciare chi soffre, se non con i lager, con il fossato dell’indifferenza.

Parteggiare

La parte. La parte di chi? Don Andrea Gallo sosteneva che essere partigiani significa decidere di stare da una parte. Credo che l’incapacità del governo di centrosinistra, travolto dal populismo nel 2018, di stare dalla parte di qualcuno si sia tradotta fra i giovani, la cui dimensione primaria è il dolore, nel disincanto completo nei confronti della politica dei partiti. Un disincanto che potrebbe discendere da un antenato comune rispetto al securitarismo meloniano.

Lo stallo post-Conte I non ha aiutato. Cresce il culto dell’attivismo, del volontariato, ci si fida di chi è “disinteressato”, il ricordo della politica come radice della comunità ritorna soprattutto nella sofferenza delle richieste di attenzione ma non sembra davvero inclusa in una visione della società. Quello che mi spaventa è che sul fondo di questa strada si intravede il rifiuto dell’elaborazione del confronto. Il dolore diventa cifra assoluta di una generazione che forse è anche un popolo. La convivenza fra ciò che viene percepito come sacro, dovuto, e la ritualizzazione dei conflitti è sempre stata difficile.

Non si rimane ragazzi per sempre, un giorno la generazione del dolore guiderà questo paese. Credo sia necessario aprire una riflessione profonda su cosa significherà la politica nell’epoca del dolore. Su cosa significhi scegliere di stare da una parte.

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