Parla, il fratello d’Italia Adolfo Urso. Parla tanto, per essere il presidente di un consesso top secret, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), interpreta questa riservatezza in una maniera incontenibilmente faconda, lui che pure è descritto come uomo timido, talvolta persino tendente al cupo. Dall’inizio del suo mandato, un anno fa, ha concesso trenta interviste. Conto approssimato per difetto, pallottoliere aggiornato a ieri. Escludendo dal mazzo i comunicati e le dichiarazioni estemporanee.

Per avere un metro di paragone basta pensare al suo predecessore Lorenzo Guerini: in un anno e mezzo di mandato non ne ha data nessuna. Giusto una, ma rigorosamente da esponente del Pd. Forse l’attuale ministro della Difesa esagera con il riserbo, è un giovane vecchio democristiano affezionato alle istituzioni, ma prima di lui anche gli altri presidenti si erano tenuti bassi con la stampa.

Per questo alcuni colleghi del comitato qualche volta, con tatto – Urso è suscettibile, come molti falsi introversi – lo consigliano: «Presidente, il Copasir deve parlare solo con gli atti, le sedute sono secretate». E invece Urso parla. Intendiamoci, non svela segreti di stato, ma manda comunicati, spiega, argomenta, replica. Per la gioia dei cronisti, per una scelta modernista di glasnost. O forse, meglio, perché da quello scranno di palazzo San Macuto Adolfo Urso sta costruendo il salto da ministro dell’Interno del prossimo, immaginario, governo Meloni. Matteo Salvini è avvisato: semmai la destra dovesse vincere, non speri di tornare al palazzo del Viminale, il nostro si è già piazzato ai piedi della scalinata.

L’incontinente verbale

Il guaio è che Urso parla davvero tanto. Si concede con disinvoltura ai talk dove può succedere che il brutto della diretta lo faccia scivolare in qualche gaffe. Martedì scorso su La7, collegato da Washington – il Copasir era lì in visita ufficiale e la tentazione di mostrarsi con lo sfondo della Casa Bianca doveva essere irresistibile – si è scapigliato alzando la voce contro il conduttore Giovanni Floris colpevole, in una puntata precedente sul famoso dossierino dei servizi segreti sui filoputiniani di casa nostra, «di aver istituito un tribunale del popolo contro il Copasir che avete accusato persino di aver chiesto, con una telefonata a un colonnello, la lista dei dissidenti, in assenza di chiunque potesse difendere le istituzioni».

Solo che in entrambe le puntate, quella in corso e quella incriminata, un rappresentante delle istituzioni c’era. Il sottosegretario Bruno Tabacci che, per amor di patria e superiore senso dello stato, ha finto di non sentire. «Sbaglia a sovraesporsi», spiega un componente del Copasir, «è un incontinente verbale», un altro, «nel pasticcio delle inesistenti liste di proscrizione, lui contribuisce ad aumentare la confusione», e a tenersi in bilico fra il pericolo della propaganda straniera e il pericolo della libertà di opinione.

E così sabato scorso, anche lì tre interviste in linea con la sua sobrietà comunicativa, si interrogava pensoso sul perché ogni sua autorevole risposta non risulti risolutiva. «Speravo che bastasse a chiudere il caso – si lamenta – Dispiace che a distanza di dieci giorni dal chiarimento si continui con accuse del tutto infondate».

Va anche detto che Urso nel Copasir è in una posizione in qualche maniera sottosopra. Si sente un difensore delle istituzioni e per questo si trova fatalmente a fiancheggiare il governo; epperò è un membro dell’opposizione, anzi è l’unico dell’opposizione nel comitato, anche se è il capo. Lo è diventato con la nascita dell’esecutivo Draghi, ma dopo lungo e penoso travaglio. L’alleato Salvini, traslocato in maggioranza, non voleva cedere la cadrega da presidente allora occupata dal leghista Raffaele Volpi, ma attribuita per legge alla minoranza.

«In questo momento gli amici dell’Iran non sono amici miei», tuonava il leader leghista per sbarrargli la strada. L’allusione era a un trascorso professionale di Urso, un’attività di import-export con l’Iran, la società di consulenza Italy World Services, che si occupava di internazionalizzazione delle imprese. Un business durato poco, in cui si era rifugiato quando aveva lasciato la politica, dopo la dissolvenza della creatura finiana Futuro e libertà.

A restare in parlamento ci aveva provato: aveva riallacciato un minimo di rapporti con Silvio Berlusconi, dal cui governo si era dimesso a fine 2010 dopo la rottura di Gianfranco Fini. Ma il Cavaliere si era legato al dito il tradimento e alle politiche del 2013 Urso non era stato ricandidato, come racconta lui stesso in Vent’anni e una notte, (Castelvecchi 2013), il libro-conversazione con il giornalista Rai Mauro Mazza che ricostruisce le vicende vicende della destra che ha svoltato a Fiuggi ma è finita in un burrone.

Vera l’attività commerciale in Iran ma velenosa la battuta di Salvini: Urso è filoisraeliano dai tempi dell’Msi e non può essere sospettato di tenerezza verso il regime di Teheran. Ha avuto piuttosto una sbandata filocinese. Ma nell’èra pre Xi Jinping, e anche per questo oggi è anti Pechino e si scatena: attenti alla Russia, ripete spesso, ma la Cina è più pericolosa. L’incaglio dell’elezione in commissione è stato sbloccato dal forzista ma anche radicale Elio Vito, fiancheggiato dall’amico Giulio Terzi di Sant’Agata e da un appello di 51 costituzionalisti e politologi guidati da Antonio Baldassarre e Valerio Onida. La briscola però l’ha buttata sul tavolo il Pd di Enrico Letta che lo ha votato: in ossequio alla legge, ai diritti delle minoranze e alla possibilità di mettere un dito nell’occhio a Salvini.

Urso quasi non ci credeva. Sentiva di non essere in cima alle preoccupazioni di Giorgia Meloni che in quel momento era in lotta per ottenere un consigliere di amministrazione Rai. E invece era diventato presidente.

Missino liberale

Ed è una vera riscossa, il premio per una catarsi dolorosa. Padovano di nascita ma catanese di famiglia, di Acireale, il suo curriculum è da buon missino e missino buono. Il suo apprendistato politico è stato a Roma, dove è arrivato per studiare sociologia. Negli anni Ottanta militava nel Fronte della Gioventù, la giovanile del Movimento sociale guidata da Fini. «Ma non era un facinoroso», racconta Enzo Raisi, ex parlamentare ed ex assessore della Bologna di Giorgio Guazzaloca. Raisi è amico di Urso da quei tempi. Era anche un sodale politico, ma fino all’ultima curva: quella in cui Adolfo ha ingranato la marcia indietro verso FdI e Raisi invece ha fondato la Buona destra con Filippo Rossi, già giovane finiano e direttore del quotidiano online Il futurista.

Raisi ha scritto un libro sulla storia di questa destra, La casta siete voi. Dalla militanza giovanile, a destra nella rossa Bologna, a Guazzaloca, Berlusconi, Fini. «Quelli come noi non si rimangiano il passato – racconta – Se andavamo a Predappio? Si, ma perché eravamo una comunità assediata. Io sono bolognese, figuriamoci, noi eravamo dieci e gli altri diecimila. Da scuola spesso dovevo uscire dalla finestra».

Anni maledetti e combattenti. Ma non per Adolfo, «lui è un secchione. Ha sempre creduto in un grande contenitore della destra plurale. Perché il Msi, checché ne dica la gente, era multiforme, un crogiuolo di culture diverse, e c’eravamo anche noi, liberali, filoamericani, filoisraeliani». Tutto bene. Solo che non è il «crogiuolo» della destra di Giorgia Meloni.

Adolfo era uno studioso ed è stato subito una promessa della corrente Proposta Italia guidata da Domenico Mennitti. Quando nel 1990 Pino Rauti ha sconfitto Fini al congresso di Rimini, lui, che era stato al Secolo d’Italia, si è ritirato a Napoli a dirigere il quotidiano Roma. Quando Pinuccio Tatarella ha avuto «l’intuizione» di Alleanza nazionale, che è nata come corrente del Msi, lui c’era. Poi è stato fra i promotori dello scioglimento del Msi e della nascita di An come partito, e alla fondazione, a Fiuggi, nel gennaio 1995, ha introdotto i lavori come segretario generale. Lo “sdoganamento” dei neri grazie al tocco magico di Berlusconi è ormai fatto. Urso entra in parlamento, leader della corrente Nuova alleanza con Altero Matteoli e Domenico Nania. Alle elezioni del 2001 è deputato della Casa delle Libertà e viceministro alle Attività produttive. Nel 2007 nasce la fondazione FareFuturo, che cerca di dare una cultura politica alla nuova destra (Urso ne è tuttora il presidente). Nel 2009 nasce il Popolo della libertà, An è tra i fondatori, la destra è di nuovo al governo, Urso è viceministro degli Affari esteri e da lì stende la rete di rapporti internazionali che poi gli torna utile nel famoso business di import-export.

Poi, nel 2010, la rottura fra Fini e Berlusconi. Nasce Futuro e libertà, Urso resta fedele al capo, ma dialogante con il vero capo, il Cavaliere. Fra i finiani è preso di mira dal falco Italo Bocchino. Ma il ribaltone promesso da Fini viene mancato, Berlusconi resiste a palazzo Chigi, la nuova destra esce dal governo ed esce dalla storia: si trasforma da sogno di una destra normale a zimbello della destra nazionale. Scrive lui:·«Avverto un clima da 25 luglio. Da salvatori a traditori della patria. Glielo avevo detto a Fini: non esageriamo». È andato tutto male: Fini si affida al forsennato Bocchino, Fli esce anche dalla maggioranza, Urso esce da Fli e va nel gruppo Misto. Sparirà dalle liste del 2013 «in una notte», come scrive nel libro. Nasce invece Fratelli d’Italia di Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto: un partito «nazionalista, tradizionalista, nativista, post fascista e sovranista». Che è l’esatto opposto della destra liberale, futurista ed europeista di Fiuggi e del manifesto di Bastia Umbra.

Due anni di purgatorio e Urso viene “recuperato”. Gli ex camerati di FdI lo considerano ancora un finiano – ferocia della sorte per lui che da Fini è stato maltrattato – ma Meloni ha l’occhio lungo: Urso porta in dote un tesoretto di rapporti con l’estero, soprattutto con gli Usa. Come dimostra anche il viaggio della scorsa settimana, ha un volto presentabile ed è ammesso nei think tank repubblicani.

Anche lei dall’altra parte dell’oceano ha alcuni amici, ma sono tutti trumpiani. «Giorgia è di gran lunga la più intelligente», racconta Raisi, «ma quando Adolfo ha fatto la scelta di andare con lei sono rimasto perplesso. Lei vuole un’Europa confederale, che è un passo indietro, noi abbiamo sempre voluto un’Europa forte e federale. E non ci credo che Adolfo sia d’accordo con un partito come Vox. Intendiamoci, non perché sia una destra franchista. Ma perché è una destra tradizionalista e ultracattolica, contraria all’aborto e ai diritti civili. Che c’entra con noi liberali?».

L’Aventino del Pd

Torniamo a Urso presidente del Copasir. L’inizio, nel giugno 2021, è stato burrascoso. La Lega ha disertato le sedute. Il presidente ha tirato dritto e ha cercato subito il colpaccio mediatico. Ha esordito con una richiesta di audire lo 007 Marco Mancini, pizzicato dalla trasmissione Report in un autogrill a parlare con Matteo Renzi (che per spiegare l’incontro ha raccontato una storia fantastica di dazione di “babbi”, biscotti toscani). Il Pd è insorto, disertando a sua volta, ha parlato di «profili di illegittimità» per un’audizione che considerava «formalmente nulla». Urso ha tirato ancora dritto ed è andato in visita «ufficiale» da Nello Musumeci, presidente della regione Sicilia, un altro ex missino ex finiano poi finito nel rivolo della Destra di Francesco Storace prima di presentarsi come «civico».

Ma il presidente era partito senza chiedere una delibera dell’ufficio dei presidenza del Comitato. «Non sapevo che avesse lo stesso rango del presidente della Repubblica o del premier», lo aveva preso in giro Enrico Borghi, Copasir lato Pd. Poi sono arrivati gli attacchi degli hacker, e lì Urso ha convocato una lista di nomi da far impazzire i cronisti, dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese alla capa dell’intelligence Elisabetta Belloni, e ha avvertito con l’immancabile intervista: «Con un attacco cibernetico si può paralizzare la guida delle auto con guida da remoto di una città intera, si può fermare un oleodotto e poi chiedere un riscatto. Altro che missili! Nessun allarmismo ma occhi aperti».

Occhi aperti: per Urso inizia la stagione delle scoperte dell’acqua calda, con tanto di relazioni del Copasir. Novità clamorose: tipo che nell’immigrazione irregolare proveniente dall’Africa ci può essere lo zampino della criminalità organizzata. E arriviamo alla guerra di invasione della Russia contro l’Ucraina. Il nostro parte con una mezza figuraccia: a quindici giorni dalla guerra il Copasir presenta una relazione sulla propria attività al Senato, in cui «un attacco su vasta scala» di Mosca è «ritenuto poco probabile». Ma qui la “colpa” non è del comitato ma di chi lo informa.

Inizia comunque la guerra, e siccome la congiuntura è grave, il presidente rientra in una postura quantomeno più dialogante con il Comitato. Naturalmente rilasciando altre interviste rivelatrici, del tipo «Putin vuole l’egemonia energetica». Sempre per la serie della riservatezza, racconta in tv di avere un di più emotivo nel conflitto: ha una moglie ucraina, la cui famiglia – racconta – è metà filo Kiev e metà filo Mosca.

Esplode il caso della guerra ibrida e delle fake news che vengono dal freddo e che in Italia penetrano come nel burro, anzi come nella smetana. Urso convoca un’altra serie di audizioni impossibili, dall’Agcom all’ad Rai Carlo Fuortes, che viene messo in guardia dagli agenti della disinformazione di Mosca annidati negli angoli di viale Mazzini. I quali agenti, però, si lasciano stanare facile visto che vengono comodamente intervistati. Nell’attività mette molto zelo, e ancora molte interviste e dichiarazioni. Ma qui non saremo noi a sottovalutare il pericolo mortale causato dalle fesserie che passano sui media.

Fratello atlantico

Il punto è che Urso è un Fratello d’Italia presentabile, «un Crosetto più moscio» dice chi non gli vuole bene, quindi utile a Giorgia Meloni. Nasce missino ma nei tempi in cui lei ancora giocava con le rune lui fondava la sua associazione Fareitalia e già guardava al Partito popolare. È un filogovernativo naturale, il che aiuta la «pasionaria andalusa» – definizione di un non amico – addestrata alla politica al “college” di Colle Oppio, storica sezione romana del fascismo manesco. Giorgia, ancora oggi che pure è premier in pectore, non resiste al comiziaccio e strilla fascisterie alle adunate del partito tradizionalista spagnolo Vox («Urla troppo, sbaglia i toni», lo ha ammesso anche l’amicone Guido Crosetto). E la moderazione di Urso è preziosa per ribilanciare. Ed è un biglietto per il futuribile – ma rigorosamente non futurista – governo Meloni.

Sarebbe il bingo della sua seconda vita politica, dopo l’umiliazione di tornare a Canossa e riporre nel cassetto i sogni «di una destra moderna e vincente», come aveva promesso Fini a Fiuggi. Urso sa di non avere molti amici fra i suoi “fratelli”. Non fa parte del cerchietto magico meloniano, comandato da un cognato e un capo di gabinetto. Non è certo fra quelli che avrebbero organizzato la festa del partito a Roma sotto la lapide di Miki Mantakas, militante del Fuan ucciso davanti a una sezione del Msi di via Ottaviano. A differenza di lei, che sul tema pattina, crede senza esitazioni in una destra «senza reduci», che «vuole guardare avanti e non indietro, e chiudere con il passato». Ma «non è un coraggioso», sospirano i suoi ex amici. Comunque sia, ormai si è consegnato a Giorgia.

© Riproduzione riservata