Il governo Meloni sembra ormai deciso ad abbandonare la Belt and Road initiative, allineandosi con gli Stati Uniti e operando una precisa scelta a livello di politica estera. Il passo indietro italiano però non comporterà una rottura definitiva dei rapporti con Pechino: la premier punta a preservare i legami con la Cina e potrebbe bilanciare l’uscita dalla Nuova via della seta cinese con la firma di nuovi accordi economici. In questo modo, la Cina continuerebbe ad essere un partner commerciale dell’Italia, ma senza il fardello di un accordo-quadro che ha avuto fino ad ora una valenza più politica che economica. Tra i settori da preservare rientrerebbe anche quello della Difesa, come si evince dall’intervista rilasciata dal ministro Guido Crosetto al Corriere della sera.

In quell’occasione, Crosetto ha definito un «atto improvvisato e scellerato» l’aver aderito alla Nuova via della seta e ha ricordato come, nello stesso periodo, la Francia abbia invece venduto aerei a Pechino per decine di miliardi di dollari senza bisogno di firmare alcun memorandum. L’obiettivo, sottolinea il ministro, è quindi quello di fare un passo indietro preservando però i rapporti economici con un paese che è sì un competitor, ma anche un partner. D’altronde i legami con la Cina sul fronte economico sono ben saldi, così come lo sono quelli relativi all’export bellico.

L’export bellico

Solo negli ultimi tre anni, l’Italia ha venduto alla Cina materiale militare per un valore di 35 milioni, 230 mila 290 mila euro. Nel 2020 e nel 2022, le autorizzazioni sono state rilasciate probabilmente all’azienda Elettronica e 2021 alla I.D.S., parte del gruppo Fincantieri, per la vendita di software e modelli di simulazione per la guerra elettronica. Come sempre, data la difficoltà di lettura del report annuale sull’autorizzazione all’export di materiale militare, è difficile avere un quadro preciso di cosa sia stato venduto, ma la presenza di un’unica autorizzazione verso Pechino e le sigle dei prodotti autorizzati facilitano questa volta la lettura di un fascicolo volutamente complicato.

La Cina però non è l’unico paese del continente asiatico verso cui si dirige l’export bellico italiano. Tra gli acquirenti dei prodotti made in Italy ci sono anche Taiwan, Singapore e l’Indonesia, tutti e tre interessati a potenziare i propri eserciti per rispondere alla minaccia proveniente proprio dalla Cina. Un controsenso evidente, ma che non ha impedito all’Italia di vendere a entrambe le parti materiale militare per svariati milioni di euro.

In Europa tra l’altro è in vigore dal 1989 un embargo sull’export bellico verso la Cina, ma le restrizioni sono scarsamente rispettate dai paesi dell’Unione. Fin dall’inizio è infatti mancata una posizione comune su cosa si dovesse intendere per “embargo sulle armi”, per cui si è deciso di affidare ai singoli paesi il compito di definire l’ampiezza delle restrizioni all’export sulla base delle proprie leggi nazionali. In questo modo si è lasciato eccessivo margine di manovra ai governi, che hanno messo al primo posto i propri interessi economici e continuato a esportare materiale militare alla Cina, ignorando così anche le restrizioni europee sull’export bellico verso paesi che non rispettano i diritti umani.

La Posizione comune del 2008 prevede inoltre che gli stati aderenti debbano agire nel rispetto del mantenimento della pace, della sicurezza e della stabilità regionale, ma la vendita di materiale miliare alla Cina dimostra chiaramente come questi criteri siamo scarsamente applicati in sede europea. L’Italia in questo non fa eccezione.

La legge 185/90

Negli ultimi mesi il governo Meloni sta anche lavorando per modificare la legge 185/90 sulle autorizzazioni all’export militare, una norma nata dietro pressione della società civile e molto contestata dall’industria militare e dagli stessi esecutivi, a prescindere dal colore politico. L’obiettivo della modifica non a caso è quello di rendere nuovamente politiche le scelte relative alle autorizzazioni, di cui dovrebbe occuparsi un nuovo Comitato interministeriale.

In questo modo si punta a ridurre le tempistiche di rilascio delle licenze e ad evitare che l’export possa essere revocato o sospeso, come successo con le bombe prodotte dalla RWM e che sarebbero dovute arrivare in Arabia Saudita ed Emirati. Questo precedente aveva allarmato le aziende della Difesa e lo stesso Crosetto che, da presidente dell’Aiad (la Confindustria delle armi), ha più volte auspicato la creazione di quel comitato interministeriale che il governo vuole adesso istituire. Eppure il rilascio delle autorizzazioni ha già adesso una connotazione politica: il governo detta la linea di indirizzo e l’Unità che si occupa della valutazione delle licenze (Uama) ha continue riunioni con i rappresentanti di vari ministeri.

Con questa riforma il governo punta quindi ad ampliare il proprio controllo sull’export bellico, mettendo al primo posto gli interessi economici e diplomatici e relegando in secondo piano il rispetto dei diritti umani e il mantenimento della pace. Un passo indietro notevole e che aiuterebbe l’Italia ad aumentare anche il giro di affari con quei paesi autoritari sempre più indispensabili per il controllo delle frontiere esterne dell’Europa. Senza correre il rischio che le pressioni della società civile possano nuovamente interferire.

La modifica della 185/90 potrebbe avere degli effetti anche sull’export verso la Cina. Ad oggi, le autorizzazioni sono state rilasciate perché non vi sono norme nazionali, europee o internazionali abbastanza efficaci per bloccare questo tipo di esportazioni, ma se la decisione dovesse diventare prevalentemente politica la situazione cambierebbe.

Il governo a quel punto sceglierebbe di non vendere materiale militare alla Cina, pur in assenza di un embargo, allineandosi così alla linea americana? Oppure continuerebbe a concedere questo tipo di autorizzazioni, fornendo così strumenti bellici a un paese che minaccia di invaderne un altro?   

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