I piccoli chimici della Costituzione, anche nel centrosinistra, quelli che giocano alle riforme come se fossero il trenino, il “Meccano della Carta”, sposta un pezzo di qua, metti un pezzo di là, sono stati scavalcati da Gianni Letta, che non è certo Giuseppe Dossetti ma neppure Oscar Luigi Scalfaro, non risulta aver preso la tessera dell’Anpi o della Cgil, eppure ha detto sul progetto Meloni-Casellati parole definitive.

«Non l’attenuerei, non la ridisegnerei, non toglierei nessuna delle prerogative così come attualmente sono state esercitate», ha detto, usando il condizionale, riferendosi alla figura del capo dello stato. Parole che ieri da Dubai la premier Giorgia Meloni ha provato a spegnere, tornando ad attaccare i pm che fanno politica perché parlano di deriva antidemocratica. Ma Gianni Letta non ha neppure la tessera di Magistratura democratica.

I suoi interventi pubblici, un tempo rarissimi, sono diventati sempre più frequenti, dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi, con la volontà o forse con il mandato di coprire il vuoto. Dall’orazione funebre per Giorgio Napolitano alla presentazione del libro sulle leadership di Antonio Funiciello alla Luiss davanti a Romano Prodi e Paolo Gentiloni, la settimana scorsa, quando Letta ha ironizzato sui cerchi magici che circondano i leader, l’unica cosa che da secoli resta invariata per quei capi che hanno smarrito il carisma, l’autorevolezza, la capacità di decisione, ma non la preferenza per il conformismo e il servilismo degli adulatori.

Così, da ex direttore di quotidiano abituato a snocciolare titoli, Gianni Letta è andato dritto al punto: l’elezione diretta del premier è uno sconquasso costituzionale. Mentre il dibattito pubblico è invischiato nei dettagli, in modo avvilente. Mille scie divergenti, come ha scritto il Censis nel suo rapporto 2023, ma nessuno sciame. Per uscire dal sonnambulismo sulle riforme, sarebbe necessario ritornare al cuore della questione, costituzionale e politico.

Sul piano costituzionale, il progetto Meloni-Casellati punta a riscrivere quattro articoli della Carta (59, 88, 92 e 94), «un criterio minimale», si legge nella premessa, «nella convinzione che si debba operare, per quanto possibile, in continuità con la nostra tradizione costituzionale e parlamentare». Ma è vero il contrario: quella tradizione sarebbe completamente stravolta, senza altre modifiche tutti gli organi di garanzia costituzionali, le nomine dei membri del Csm e della Corte costituzionale, della Rai, e delle authority, fino a quella del capo dello stato, lo stesso potere di revisione costituzionale, sarebbero in mano alla sola maggioranza e al premier eletto direttamente, con diritto di vita e di morte sui suoi parlamentari.

Se si vuole fare una riforma di questa portata non è ammesso nessun minimalismo, va eletta una Assemblea costituente con il compito di riscrivere la seconda parte della Carta costituzionale, perché la forma parlamentare non è nella disponibilità di nessuno. Ma se la maggioranza di centrodestra andrà avanti, la battaglia dovrà spostarsi dalla modalità di elezione del premier alla tutela delle istituzioni di garanzia, non solo del presidente della Repubblica, che è l’arbitro, ma di tutte le altre. Su questo punto, il più delicato, anche la maggioranza può entrare in contraddizione, come dimostra la reprimenda del dottor Letta.

Sul piano politico, nessuno può sapere ora come andrà a finire una riforma che deve passare la doppia lettura delle camere e un probabile referendum confermativo. Ma se alla fine del percorso dovesse essere introdotta davvero una forma di elezione diretta del premier gli attuali schieramenti ne uscirebbero stravolti. Incredibile ricordarlo ora, ma il Pd è stato alla nascita il partito più attrezzato a un modello presidenziale e maggioritario, contenuto nello statuto originario: le primarie aperte a tutti gli elettori e non solo agli iscritti, la coincidenza della carica di segretario del partito con il candidato premier, il modello americano.

Di questa ispirazione iniziale si sono perse da tempo la memoria e la pratica, ma è quella che per decenni ha permesso al centrosinistra di vincere nelle città e nelle regioni, a cominciare da domenica 5 dicembre 1993, trent’anni fa, quando la coalizione progressista e democratica vinse in tutte le città, Roma, Napoli, Palermo, Venezia, con Francesco Rutelli, Antonio Bassolino, Leoluca Orlando, Massimo Cacciari.

Vittoria illusoria perché tre mesi dopo il Polo berlusconiano arrivò primo alle elezioni politiche, ma con una abile sommatoria di sigle sulla scheda elettorale, da Umberto Bossi a Gianfranco Fini, un’accozzaglia che non durò a lungo. Guarda un po’: c’è stata una stagione in cui con l’elezione diretta il centrosinistra vinceva e il centrodestra perdeva. È successo anche due volte con Romano Prodi. Poi tutto si è sfarinato. E dunque, prepararsi: alla battaglia per la difesa della Costituzione e alla costruzione di una coalizione competitiva. Per uscire dal sonnambulismo.

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