Questa volta il Papeete salviniano non si consuma tra mojito, sole a picco e sabbia sotto ai piedi. È molto più austero, tra i busti di marmo dei corridoi del palazzo del Senato, popolato da parole di rabbia e attesa, e coinvolge tutto il centrodestra di governo. Dopo una lunga giornata di trattative, interventi in aula infuocati, telefonate con il Quirinale, e incontri fuori dai palazzi, Lega e Forza Italia hanno deciso di non appoggiare il presidente del Consiglio Mario Draghi.

Durante il voto di fiducia tutti i loro senatori hanno lasciato l’aula e non hanno partecipato alla votazione. Draghi ha incassato un esile fiducia che lo porta diretto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È stata una giornata lunghissima. La fine del governo è stata segnata dalla riunione di martedì sera tra il premier e il centrodestra. L’incontro a cui hanno presenziato Salvini, Antonio Tajani di Forza Italia, Lorenzo Cesa dell’Udc e Maurizio Lupi di Noi con l’Italia non è andato bene.

Silvio Berlusconi nei giorni scorsi aveva dato indicazioni precise, trainando dalla sua parte anche gli alleati: sì al governo ma senza il Movimento 5 stelle. Era riuscito a convincere anche lo scettico Salvini, intenzionato a sfruttare l’occasione per andare a votare anticipatamente. Fonti di centrodestra sostengono che sia stata la chiusura del premier alle «richieste» del centrodestra ad aver aperto una crepa nella linea berlusconiana. Il leader di Forza Italia aveva chiesto garanzie sul perimetro del governo, ma non sono arrivate.

Il discorso indigesto

C’era attesa per le parole di Draghi. Ma ieri l’intervento iniziale, quello che ha aperto la giornata in Senato, è rimasto indigesto a tutta la destra. «Non abbiamo mai aumentato le tasse sui cittadini. Occorre procedere con uno sforzo di trasparenza», ha detto il premier rivolgendosi, senza esplicitarlo, a Salvini che per mesi ha fatto intendere che l’esecutivo volesse alzare le imposte con la riforma fiscale. Il segretario della Lega, secondo quanto riferiscono fonti del partito, è uscito dall’aula cupo e molto arrabbiato.

Ha giudicato il discorso severo nei confronti della Lega, molto morbido con il M5s. «Siamo stupiti dal discorso del presidente: nessun accenno a flat tax e pace fiscale», hanno detto i deputati Massimo Bitonci e Alberto Gusmeroli. Hanno parlato loro a nome di Salvini. Malumori e risentimento hanno riempito il vertice a villa Grande, la residenza romana di Berlusconi. È lì, all’ora di pranzo, che sarebbe stata decisa la linea durissima del centrodestra.

Il prendere o lasciare rivolto a Draghi: «Il centrodestra di governo è disponibile a un “nuovo patto” di governo e continuerà a dare il suo contributo soltanto con un nuovo governo, guidato ancora da Mario Draghi, senza il M5s e profondamente rinnovato». La risoluzione presentata da Lega e FI in aula ha recepito queste indicazioni. Ma alla fine il presidente del Consiglio ha chiesto di porre la fiducia sul testo morbido, senza riferimenti al M5s, di Pier Ferdinando Casini (Autonomie). L’ultimo tentativo del presidente Sergio Mattarella è andato a vuoto: ha sentito al telefono sia Salvini sia Berlusconi, ma le posizioni sono rimaste granitiche.

È cresciuta la consapevolezza di poter andare al voto sfruttando il momento, i sondaggi trainati da Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, sono dalla loro parte. Berlusconi ha resistito fino all’ultimo frenato dall’idea che il suo partito si possa sgretolare. Maria Stella Gelmini, ministra agli Affari regionali, ha deciso di lasciare FI, poco prima si era scontrata duramente in aula con la collega di partito Licia Ronzulli: Forza Italia «ha voltato le spalle agli italiani», ha detto.

Due senatori, invece, hanno votato la fiducia a Draghi: Andrea Cangini e Laura Stabile. L’ipotesi voto è forse l’unica percorribile, una data papabile è il 2 ottobre. Sarebbe la prima volta nella storia repubblicana la convocazione delle elezioni in autunno. Ora è tutto in mano a Mattarella che, non è escluso, proverà a fare almeno un giro di consultazioni.

 

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