La mutazione di Giorgia Meloni da sovranista in conservatrice istituzionale è compiuta e a benedirla c’è un officiante d’eccezione: il ministro della Cultura Dario Franceschini. Il contesto dell’incontro è quantomai cordiale: la presentazione del libro La variante Dc del deputato azzurro, Gianfranco Rotondi.

Per l’occasione, il fiero ex democristiano ha l’intuizione diabolica di mettere accanto due ospiti che in teoria dovrebbero essere opposti e nella realtà, pur da posizioni diverse, si danno ragione a vicenda. Nel non sbilanciarsi sul tema del momento – l’elezione al Quirinale – in cui entrambi si appellano all’insegnamento di Arnaldo Forlani che sapeva «parlare per ore senza dire niente», la complicità è palpabile.

Ma anche sulla necessità di partiti «che siano veri partiti e non somme di eletti», hanno convenuto i due ricordando i tempi andati delle scuole di formazione politica sul territorio e della gavetta per prepararsi alla candidatura. Franceschini ha riconosciuto a Meloni il suo ruolo indispensabile di opposizione, Meloni ha riconosciuto al Pd una «golden share» per l’elezione del prossimo capo dello Stato.

A dare la cifra del nuovo corso meloniano, però, è un tema sensibile per tutto il centrodestra come l’europeismo. Proprio nel giorno dopo della missione fallita del leghista Matteo Salvini di creare il nuovo gruppo di sovranisti nel parlamento europeo, Meloni dichiara il suo europeismo. Anomalo «ma sempre europeismo», spiegando che è stata la stampa a tacciare ingiustificatamente Fratelli d’Italia di essere anti-Unione europea. 

L’europeismo

«Io vengo da una generazione che ha ballato sulle macerie del Muro di Berlino perché era la nascita dell'Europa unita», ha detto Meloni, fissando due punti centrali: una Italexit «non è un’opzione sul tavolo» ma che lei crede in un «modello confederale» in cui l’Europa si occupa dei grandi temi in cui gli Stati sono insufficienti in un mondo globalizzato ma non delle minuzie. Insomma, «principio di sussidiarietà» e richiamo al «presidente francese Charles De Gaulle»: un modello culturale che la allontana dall’estremismo di Marine Le Pen, ma a cui Meloni si rifà da quando è diventata nel 2020 presidente dei Conservatori europei e che dà la dimensione della spinta verso l’istituzionalizzazione di Fratelli d'Italia.

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Proprio su queste basi Meloni ha incassato l’investitura di Franceschini. «Non esiste un veto europeo su un possibile futuro governo di centrodestra», ha detto il ministro ricordando i tanti anni di governo Berlusconi, e ipotizzando una possibile guida di Fratelli d’Italia. A maggior ragione se «l’alternanza di governo non mette in discussione la posizione europeista». Quanto di questi scambi di battute cordiali sia un sottinteso sapiente in ottica Quirinale – a cui Franceschini è considerato tra i candidati sotterranei - è impossibile dirlo. Certamente, in questa fase delicata d’attesa, ogni riferimento indiretto sembra rimandare in direzione del Colle.

Le strategie divergono in riferimento soprattutto a palazzo Chigi: Meloni lavora «per andare a votare il prima possibile, subito dopo l'elezione del capo dello Stato», Franceschini ritiene che «la legislatura deve arrivare alla fine, a prescindere dell'elezione del presidente della Repubblica». Un perfetto gioco delle parti, che punta però nella stessa direzione: al dopo-governo Draghi. E che conduce all’ennesima convergenza, visto che entrambi lo considerano un’eccezione per tempi eccezionali. Da cui uscire appena possibile. 

Gli invitati ad Atreju

Nell’attesa, Meloni prosegue nella via del consolidamento come forza di opposizione ma anche di dialogo. Per farlo rispolvera Atreju, la festa dei giovani che lei stessa ha plasmato e che è da sempre il luogo di incontro tra Fratelli d’Italia e le altre forze politiche.

Saltata l’anno scorso a causa della pandemia, quest’anno la leader sceglie una piazza – piazza Risorgimento a Roma in ossequio alle norme anticovid, per non dare spazio a ipotesi di strizzate d’occhio ai no vax - e punta ad accreditare Fratelli d’Italia come interlocutore italiano dei conservatori internazionali.

Non a caso il titolo scelto è “il Natale dei conservatori” e il dibattito di chiusura vedrà ospiti i vicepresidenti del gruppo europeo dei Conservatori e riformisti, Radoslaw Fogiel (Diritto e Giustizia, Polonia) e Jorge Buxadé (Vox, Spagna),  il coordinatore delle relazioni internazionali del Likud Raz Granot, il parlamentare dei Tories inglesi James Wharton e il repubblicano ed ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani. 

Nel corso della settimana di incontri, invece, saranno ospiti tutti i principali leader di partito: non solo Salvini e Berlusconi, ma anche il presidente del M5S Giuseppe Conte, il segretario del Pd Enrico Letta e quello di Italia Viva, Matteo Renzi.

A completare il programma, nutrita è anche la schiera dei ministri: quello degli Esteri, Luigi Di Maio, dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani e la ministra della Giustizia Marta Cartabia.

In vista dell’avvicinarsi della corsa al Quirinale, nascosti tra gli ospiti ci sono almeno tre “quirinabili”: il presidente emerito del Senato Marcello Pera, il presidente emerito della Camera Luciano Violante e il giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese.

Al termine, Meloni «lancerà la sfida politica e programmatica per il governo della nazione». E le parole d’ordine per candidarsi di fatto alla leadership del centrodestra saranno europeismo confederato, legge elettorale maggioritaria e, neanche a dirlo, conservatorismo. Con buona pace del sovranismo e soprattutto di Salvini, che sta vivendo la sua ora più difficile.

Ironia della politica: sarà ospite ad Atreju proprio negli stessi giorni in cui avrebbe dovuto tenersi l’assemblea programmatica della Lega, annullata dopo l’approvazione del super green pass che avrebbe impedito la partecipazione ai tanti delegati ancora non vaccinati. 

 

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