Un filo sotterraneo si allunga dall’Afghanistan islamico dei Talebani alla cattolicissima Polonia, cento giorni dopo la cattura di Kabul.

L’acqua gelida dei torrenti che scendono dal Pamir, dentro i quali viene inzuppato per punizione qualche afgano che non rispetta la regola delle cinque preghiere quotidiane, sgorga simbolicamente dalla stessa fonte altrettanto gelida alla quale attingono i cannoni della polizia polacca per respingere i migranti ammassati dietro il filo spinato del confine, in cerca di Europa. Come se Polonia e Ungheria organizzassero a rate una nuova cortina di ferro, alla rovescia.

Qui a Heerlen, invece, negli anni passati sono approdati profughi siriani e prima ancora profughi afgani, che nessuno malmenava con l’acqua allora, né adesso.

Il nuovo regime degli studenti islamici forse è inconsapevole di queste affinità, mentre dopo cento giorni dall’ingresso nelle stanze del potere a Kabul prova a cambiare pelle, in modo confuso.

AP Photo/Isabel Mateos

Nuove denominazioni

Nei giorni scorsi, quando è stata compilata la lista della nuova gerarchia che amministrerà le province del paese, davanti ai nomi dei governatori è stato eliminato il titolo di mullah. La biografia dei personaggi non cambia, non ci sono capitoli inediti, ma sono stati trasformati sbrigativamente in figure laiche, senza più riferimenti al loro rango religioso e ai loro studi coranici.

Il nuovo governatore di Kandahar è un signore che in passato aveva militato con Al Qaeda. Oggi è doppiamente sgravato dai suoi oscillanti riferimenti politico-religiosi.

Più significativa invece, e in direzione opposta, la nuova denominazione delle guarnigioni militari sparse nelle varie città. Adesso sono indicate con nomi arabi, che fanno riferimento al profeta, ai suoi insegnamenti, ai suoi familiari, alle sue imprese militari.

Come sono parole arabe quelle scritte sulla bandiera bianca dell’Emirato afgano. La guarnigione di Mazar oggi si chiama conquista, quella di Kunduz porta il nome del califfo Omar, quella di Gardez celebra il califfo Mansuri, quella di Helmand esalta la virtù della determinazione. Mentre per la città di Kandahar è stata scelta Al Badr, la località dove Maometto combatté e vinse con l’aiuto divino la prima, vera battaglia dell’Islam contro un esercito tre volte più grande, partito da La Mecca.

I reparti militari afgani oggi sono ispirati alla guerra santa, a una stagione che torna indietro di quindici secoli. Non c’è posto in questo elenco per il nome di Shawali Khan, famoso per avere sconfitto gli inglesi, e unico premiato dal re con il titolo di maresciallo.

Questa è una regressione totale rispetto a quando la monarchia afgana, cento anni fa, trasformò l’esercito ispirandosi alle accademie militari europee, con divise ricopiate sul modello britannico, con armamenti moderni, preferibilmente tedeschi.   

Dice un diplomatico oggi esule a Heerlen che questa classificazione militare ispirata a date e nomi del mondo islamico non è sorprendente, ripete esattamente la stessa scelta fatta dai comunisti afgani negli anni Settanta del secolo scorso, quando arrivarono al potere. Avevano distribuito il colore della bandiera rossa ovunque, a gloria del partito e dell’amicizia eterna con l’Unione sovietica e i paesi socialisti fratelli.

Anche allora si erano subito divisi in due fazioni ostili, Khalq e Parcham, eliminando poi fisicamente i capi rivali.

Gruppi rivali

Allo stesso modo oggi gli eredi del mullah Omar celebrano la gloria dell’Islam. Anche loro sono già divisi, nonostante il nuovo regime non ottenga ancora alcun riconoscimento internazionale.

Da un lato il gruppo installato a Kabul, capeggiato da Haqqani, ricercato come terrorista da anni, ministro degli Interni dal volto oscurato, mediatore recente e decisivo tra i Talebani pachistani e il governo di Islamabad.

La tregua è stata firmata a Khost, località insidiosa, dove i sovietici atterravano con il portellone aperto dei loro Antonov, scaricando le truppe fresche e subito imbarcando quelle stanche, rallentando, ma senza fermare la corsa sulla pista. Poi arrivarono gli americani, e quindi gli alpini, che sperimentarono le stesse insidie.

In posizione antagonista è il gruppo di Kandahar, con il mullah Baradar, a suo tempo fondatore del movimento assieme al mullah Omar, negoziatore con gli americani per un anno a Doha, morbido politicamente e debole sul piano militare, ma sensibile alle attenzioni dei sauditi, da sempre generosi di aiuti, e a quelle più recenti del Qatar. Che nel frattempo è diventato, come si dice in diplomazia, il rappresentante degli interessi americani in Afghanistan.

In un filmato diffuso recentemente sembra di rivedere la propaganda dei reparti che si addestravano ai tempi di Bin Laden, strisciando per terra, o balzando sopra gli ostacoli. Questi combattenti sono tutti vestiti di nero, con divise nuovissime.

Anche per loro però, per un contagio dilagante e inarrestabile della moda contemporanea, scarpe sportive completamente bianche ai piedi. Scarpe che imperversavano al bazar già durante la presenza dei soldati americani.

È finita per i combattenti che invocano Allah la stagione dei piedi nudi anche d’inverno, con sandali o ciabatte.

Nel filmato musiche marziali si mescolano a preghiere. Mentre bazooka e altre bocche da fuoco scaricano fiamme e nuvole di fumo. Il portavoce dei Talebani spiega che questo è il nuovo reggimento dei suicidi per Allah, addestrato nel villaggio di Nasi, nella provincia del Badakhshan, su al nord. Allestito per ammonimento e rappresaglia contro il confinante Tagikistan, che ha protestato perché non ci sono rappresentanti della etnia tagica nel nuovo governo di Kabul.

Limbo di povertà

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Ma intanto, sconfitti gli americani, dopo anni di imboscate, mine sulle strade e attacchi suicidi, i Talebani si ritrovano adesso in una situazione simmetrica, sono loro il bersaglio di fronte alle rappresaglie dell’Isis, che non ha perso tempo per farsi vivo dopo il 15 agosto.

I seguaci dello stato islamico sono arruolati con un compenso competitivo di 400 dollari al mese, una cifra che nella povertà del paese stimola l’impegno guerriero. A Kabul in questi giorni veniva distribuito dall’Onu a migliaia di famiglie un aiuto in moneta equivalente a una trentina di dollari. 

E le ultime stime dal palazzo di vetro dicono che oltre nove persone su dieci non hanno cibo sufficiente, mentre tutti i dipendenti pubblici sono praticamente senza stipendio e la peggiore siccità dell’ultimo quarto di secolo ha colpito l’agricoltura. Un quadro da bancarotta.

Contare gli attentati dell’Isis è come contare gli alberi uno alla volta senza vedere la dimensione disastrata dell’intero bosco.

E anche il progetto dei corridoi umanitari si rivela una specie di imbuto lento e stretto. L’emozione dell’occidente per la gente accalcata all’aeroporto di Kabul tra ansia, sporcizia e minacce già si è affievolita se non dileguata, i corridoi non porteranno lontano, dovranno soprattutto travasare nuovi profughi appena oltre confine, soprattutto in Pakistan e in Iran.

Senza dimenticare  che i campi costruiti ai tempi dell’invasione sovietica in quei paesi non sono mai stati chiusi, sono diventati un limbo che non conosce la via del ritorno.

Testimonianze

La testimonianza del professore J. O. affiora con stanchezza. È una delle rare persone che non hanno rubato, né chiesto incarichi di governo. Aveva giurato di non partire, è stato testimone di tutti i momenti chiave nel suo paese dopo il golpe del 1973 che cancellò la monarchia. Aveva sistemato in casa scorte di cibo per sei mesi.

Ma gli autori del primo saccheggio erano uomini provenienti dal Panjshir, non Talebani. Allora ha cambiato letto ogni notte, usato auto diverse, parlato pochissimo al telefono. Quando ha capito che non c’erano più prospettive per un qualche argine al caos è partito con gli abiti che aveva addosso.

Eppure i Talebani, rispettosi della sua reputazione, gli avevano mandato degli emissari per lavorare con loro già prima di prendere la capitale. Ha risposto: «Prima rompete i legami con il Pakistan».

Non dimentica quando i presidenti americani venivano in visita frettolosa a salutare i loro soldati. Andavano alla base aerea di Bagram, ma non al palazzo del presidente afgano. Mostra il presidente Trump che sbaglia il nome del presidente Ghani, e poi non lo tiene al suo fianco come vorrebbe un minimo di protocollo ma lo sistema alle sue spalle, confuso tra i soldati stranieri in divisa.  

L’inverno afgano si comporta sempre come un generale nemico, isola molti distretti, taglia le strade, ferma i commerci e aumenta la povertà. Da quarant’anni, tutti quelli che hanno  comandato a Kabul – sovietici, guerriglieri che li avevano sconfitti, poi Talebani della prima ora, quindi soldati della Nato, e adesso ancora Talebani di seconda generazione – si sono preparati dopo il disgelo alla offensiva di primavera.

Questo è il calendario strategico obbligato, deciso dal clima e dalle montagne. Anche per i reggimenti in onore di Maometto e dei califfi.

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