C’è stato un prima, e il dopo si estende per venti anni. Ma i tre giorni che vanno dall’11 al 14 settembre 2001 sono l’innesco della sorveglianza di massa. Serviranno anni perché se ne sappia qualcosa, e non sono bastati due decenni per disinnescarla, anzi: la presa sui nostri dati cambia forma ma è pervasiva come non mai. La guerra al terrore dichiarata da Washington nel 2001 si rivela oggi per quello che è: anzitutto una guerra alla nostra riservatezza.

11 settembre. L’innesco

«Era un pandemonio, il caos: le nostre più antiche forme di terrore. Entrambe fanno riferimento a un collasso dell’ordine e al panico che si crea per riempire il vuoto». Le parole sono di Edward Snowden, che nel 2013 con il datagate svela all’opinione pubblica di tutto il mondo il sistema di sorveglianza statunitense. L’11 settembre 2001 Snowden è ancora un freelance dell’informatica, e mentre avviene l’attacco alle torri gemelle si trova proprio in una base militare; il marito della sua capa dell’epoca lavora per la National security agency. «Ricorderò per tutta la vita il momento in cui ripercorsi Canine road, la via accanto alla sede dell’Nsa, dopo che il Pentagono era stato attaccato», racconta nel suo memoir Errore di sistema. «All’interno dell’edificio dai vetri scuri era scoppiato il finimondo. Nel momento del peggior attacco terroristico della storia statunitense, lo staff dell’Nsa – la più grande agenzia di intelligence – stava abbandonando in massa il posto di lavoro, e io mi ritrovai proprio in mezzo a quel delirio».

Con l’11 settembre, dirà poi il giornalista Glenn Greenwald, colui che darà voce a Snowden scrivendo lo scoop del datagate e che per questo vincerà un Pulitzer, «si instaurò un clima improntato al culto della sicurezza a qualunque prezzo e favorevole al proliferare degli abusi di potere». La guerra scatenata dall’11 settembre, la war on terror, la guerra al terrore, fondata anzitutto sul terrore introiettato in quei frangenti nell’opinione pubblica, «era una guerra fatta di eccezioni», dice Snowden. La prima grande eccezione fu la sorveglianza di massa.

Autunno 2001. La virata

Sono passati appena tre giorni dall’attacco terroristico – è il 14 settembre – e Michal Hayden, che all’epoca dirige l’Nsa, ha già pronta la svolta: decide che è il momento di iniziare a spiare le comunicazioni digitali di chi si trova nel paese. Il 4 ottobre il presidente George W. Bush in persona sigla un memorandum con il quale autorizza «a svolgere attività di sorveglianza elettronica» non solo per individuare ma anche «per prevenire» episodi di terrorismo negli Usa. Non soltanto la mossa tattica di Hayden, ma anche quella più di rilievo della Casa Bianca stessa, avviene senza che il Congresso ne sia informato, in un clima di segretezza che dura anni e che solo le rivelazioni di whistleblower alla stampa portano alla luce. Attraverso le soffiate di informatori interni all’Nsa e al dipartimento di Giustizia, nel 2005 si viene a sapere di questo “President’s Surveillance Program” (PSP) avviato nell’autunno di quattro anni prima. Con il PSP l’agenzia di sicurezza nazionale ha il via libera di intercettare telefonate e comunicazioni via internet, coinvolgendo anche cittadini non statunitensi, visto che il controllo si allarga alle interazioni tra chi si trova in Usa e paesi stranieri. Tutto questo avviene non solo al di fuori di ogni dibattito democratico, ma anche senza alcun mandato da parte della Foreign intelligence surveillance court, ovvero il tribunale federale segreto che fino a quel momento aveva vagliato le richieste di spiare i cittadini. Nel frattempo il 26 ottobre 2001 il Patriot Act siglava il passaggio definitivo a un regime di sorveglianza: dentro questa cornice normativa, e con la motivazione della guerra al terrorismo, Bush abbatté ogni barriera tra l’intercettazione mirata, durante una indagine, e quella massiccia. Oltre alla guerra preventiva, iniziava l’era della sorveglianza, preventiva. E indifferenziata.

Prima e dopo

La rapidità con cui Washington costruì il suo grande fratello fa intuire che l’11 settembre non fu che il momentum, l’innesco perfetto, di un piano già in cantiere. Di progetti per lo spionaggio globale si discuteva con preoccupazione in Europa già dalla fine degli anni Novanta, e a istituzionalizzare la questione fu proprio l’europarlamento. Nel luglio 2000, dopo aver letto i contenuti allarmanti di un report (“Stoa”), gli eurodeputati imbastirono una commissione temporanea sul «sistema di intercettazioni Echelon», e l’anno seguente – un paio di mesi prima delle torri gemelle – produssero una risoluzione. Che attestava, tra le altre cose, questo: «I servizi di intelligence statunitensi non si limitano a investigare sui nostri affari economici, ma intercettano comunicazioni dettagliate tra le aziende, giustificando tutto questo come lotta alla corruzione». Prima del terrorismo, l’alibi evidentemente era questo, per quel che agli eletti era dato sapere; ma già anticipavano, e mettevano in guardia, sui «rischi per i diritti dei cittadini».

Dopo l’11 settembre la deriva fu definitiva. Snowden diventò esperto informatico della Cia, nel 2005, proprio perché il sistema di intelligence era ormai diventato così ampio da reclutare tecnici in modo sempre più diffuso. L’anno dopo, nel 2006, grazie alle rivelazioni di Mark Klein, whistleblower prima ancora dello stesso Snowden, si venne a sapere che l’Nsa raccoglieva le comunicazioni attraverso AT&T e almeno altri sedici provider. Nel 2007 l’amministrazione Bush provò a far credere che il programma di spionaggio era stato interrotto, ma non era affatto così.

Rivelazioni e disillusioni

«Direttore Clapper, mi risponda con un sì o con un no». Si rivolge così, al capo dell’intelligence, il senatore democratico Ron Wyden durante un’udienza al Senato nel marzo 2013: «L’Nsa raccoglie dati di un qualsiasi tipo, siano essi di milioni o di centinaia di milioni di americani?». «No», risponde il generale. «Non intenzionalmente». Pochi mesi dopo succede qualcosa che rende insostenibile quella bugia. Comincia con un titolo, che recita: «La Nsa rileva ogni giorno i tabulati telefonici di milioni di clienti Verizon». E prosegue così: «La Nsa, forte di una sentenza emessa in aprile e coperta da massimo segreto di stato, ingiunge a Verizon di comunicare tutti i metadati telefonici in suo possesso, dando la misura della sorveglianza interna sotto Obama». Questo articolo uscito sul Guardian il 6 giugno 2013 a firma Glenn Greenwald è il primo di una serie che diventa poi “lo scandalo datagate”; il tutto emerge grazie alle rivelazioni di Edward Snowden, che all’epoca era un analista di infrastrutture per la Booz Allen Hamilton, azienda fornitrice di servizi alla Difesa. Lavorando sia per aziende private quanto per la Cia, l’informatico aveva potuto «vedere in prima persona lo stato, specialmente l’Nsa, agire in combutta con l’industria privata delle tecnologie per accedere senza più restrizioni alle telecomunicazioni della gente». Questo ai suoi occhi era «un mondo che soffoca i valori fondanti di internet», e lui allora decise di «consentire all’opinione pubblica di stabilire se vogliamo andare avanti così»: ecco come Snowden spiegò il suo gesto. Che ha ancora conseguenze visibili per lui, in esilio perché dagli Usa pende l’accusa di spionaggio, e per gli altri whistleblower, che anche grazie alla sua storia hanno guadagnato lo statuto di sentinelle della democrazia.

Il 2015. Una svolta a metà

Ciò che il datagate ha svelato è anche la continuità bipartisan del grande fratello. Fu Obama ad esempio nel novembre 2012 a firmare una direttiva per una offensiva telematica all’estero; fu durante il suo mandato che Prism, il programma di sorveglianza, ampliò il proprio raggio d’azione: nel 2009 i dati di Google e Facebook, l’anno dopo quelli di YouTube, nel 2011 di Skype e Aol… Nel 2013 in soli 30 giorni venivano raccolti 47 milioni di metadati dell’Italia: neppure noi siamo stati risparmiati dall’Nsa. I leader europei sono stati intercettati, Angela Merkel fu spiata da un’ambasciata americana a Berlino. L’intelligence americana ha puntato occhi, orecchie e centri di raccolta dati in paesi europei e nel Regno Unito.

Nel frattempo è emerso in modo sempre più chiaro che quello tra sicurezza e libertà era un falso bivio: la sorveglianza indiscriminata verso la popolazione non era giustificata da criteri di efficacia; chi ha compiuto attentati il più delle volte era già noto alle autorità. Nonostante l’Nsa usi come alibi per il grande fratello la prevenzione di altri 11 settembre, l’unico esempio a cui può appigliarsi è quello dell’estremista Basaalay Moalin; ma anche in questo caso – è un tribunale ad asserirlo – il fatto che le sue telefonate fossero origliate non ha avuto ruolo nella sua condanna.

Il 2015 è stato l’anno della svolta a metà. Per placare la propria opinione pubblica, Obama trovò un compromesso coi repubblicani e il Freedom Act, che limitava i poteri di sorveglianza dell’Nsa, fu approvato. Ma il 2015 è anche l’anno in cui con la Corte di giustizia europea costringe l’Europa a fare i conti con la sorveglianza Usa nei confronti di europei, e invalida l’accordo “Safe Harbor” per il trasferimento dei dati Usa-Ue.

Venti anni dopo

Max Schrems, l’attivista per la privacy che innescò quella sentenza – chiamata appunto “Schrems” – dice oggi che «gli Usa continuano a negare diritti a noi cittadini non statunitensi» e che «serve un no-spy agreement, un accordo anti sorveglianza che coinvolga almeno i paesi occidentali che si definiscono democratici». Nonostante il datagate, l’era della sorveglianza di massa non è affatto finita; anzi, si evolve.

«Tutti noi che ci occupiamo di surveillance studies – dice Fabio Chiusi – vediamo anzi che vengono normalizzate idee molto pericolose come quella di tracciare indiscriminatamente tutti i nostri spostamenti, e lo vediamo anche nella risposta data alla pandemia». Chiusi, che guida il progetto Tracing the tracers per AlgorithmWatch, dice che «tra raccolta di dati sanitari e biometrici, tentativi di sdoganare il riconoscimento facciale come fosse la normalità, controlli ai confini sempre più pervasivi, assistiamo a una spinta per espandere le infrastrutture di controllo». L’11 settembre è ancora qui, tra noi: 2001, odissea nel futuro.

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