Il Joe Biden d’oriente non è poi così diverso dal Biden europeo. Quando a Varsavia il presidente degli Stati Uniti ha detto che «per l’amor di dio, Putin non può restare al potere», la Casa Bianca ha provato ad attutire gli effetti deflagranti di quella dichiarazione smentendo ogni riferimento a un regime change, cioè a un piano per destituire Vladimir Putin. Ma le parole pronunciate da Biden questo lunedì a Tokyo, sulla volontà di difendere militarmente Taiwan, sono un segnale forte a Pechino e non esiste chiarimento a margine che possa derubricarle come gaffe: questo stesso concetto è stato ribadito in altre occasioni recenti, e soprattutto, il viaggio di Biden in Asia rinforza la pressione degli Usa verso la Cina su più fronti. L’inaugurazione di un partenariato economico nella regione indopacifica, che lega Usa e una dozzina di paesi, si aggiunge alle altre iniziative che Washington ha già messo in campo per presidiare l’area sul fronte della sicurezza, oltre che politico ed economico. Il vertice “Quad” che riunisce attorno a un tavolo questo martedì a Tokyo Usa, Australia, India oltre che Giappone, puntella ulteriormente la presenza statunitense nello scacchiere indopacifico.

Il caso Taiwan

Il 18 marzo, dopo che si è conclusa la videochiamata tra Biden e Xi Jinping, Pechino ha sostenuto di aver portato a casa un punto chiave: che Biden non sostenga l’indipendenza di Taiwan. Durante il suo primo viaggio in Asia da presidente, questo lunedì Biden, mentre si trovava in conferenza stampa assieme al premier giapponese, ha dato tutt’altro segnale. «Lei ha detto di non voler intervenire militarmente in Ucraina. Si impegnerebbe militarmente per la difesa di Taiwan?», è una delle domande arrivate dai cronisti. Biden ha risposto: «Sì». Davvero? «Questo è l’impegno che abbiamo assunto». L’idea che gli Usa siano disposti a entrare in campo per difendere Taiwan da un intervento militare cinese era stata già ventilata da Biden in altre occasioni, sia la scorsa estate sia in autunno. La Casa Bianca lunedì ha poi precisato che la politica Usa in materia resta la stessa. Formalmente gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire supporto a Taiwan per difendersi, il che non implica un intervento militare diretto. Ma la cosiddetta «ambiguità strategica» degli Usa su questo punto si sta evolvendo sempre più in una strategia di pressione su Pechino. La frase di Biden è solo uno dei segnali.

La pressione sulla Cina

Il commercio con l’indopacifico porta agli Usa 900 miliardi di dollari in investimenti stranieri e tre milioni di posti di lavoro. «Gli Stati Uniti sono una potenza economica dell’indopacifico, hanno quasi raddoppiato il loro investimento nella regione nell’ultimo decennio, ed espandere la leadership economica statunitense nell’area è cosa buona per gli americani – lavoratori e aziende – come per gli abitanti della regione». Questa è la premessa con la quale la Casa Bianca mette a battesimo l’Ipef (“Indo-Pacific Economic Framework”), il partenariato economico avviato questo lunedì con Australia, Brunei, Corea del Sud, Giappone, India, Indonesia, Malesia, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam; e che resta aperto a futuri ingressi. «Questo partenariato ci farà arrivare in testa a tutti», ha detto Biden. Cooperare in economia per «difendersi dalle minacce»: di quali minacce parli Washington, è chiaro anche dall’incontro con il premier giapponese. «I due leader hanno discusso le continue azioni della Cina incompatibili con un ordine internazionale basato sul diritto». I riferimenti sono tanto all’economia quanto all’«aumento delle capacità nucleari» di Pechino.

Il fronte anti cinese

«I rapporti con la Cina resteranno difficili», ha detto il laburista Anthony Albanese, che questo lunedì ha assunto l’incarico di premier australiano dopo nove anni di governo conservatore. Nonostante l’alternanza, rimane coerente la posizione di Canberra verso Pechino, il che è cruciale per Biden, che martedì a Tokyo incontra Albanese, i leader indiano e giapponese. Il formato a quattro, nato nei primi anni del Duemila, con Biden è stato rivitalizzato in funzione anticinese. L’Australia ha ormai abbandonato, sin dall’era Trump, la sua strategia equidistante basata su rapporti pragmatici sia con Washington, per la sicurezza, sia con Pechino, sul fronte economico. A settembre, Canberra ha siglato con Washington e Londra il “patto Aukus” per «la sicurezza nell’Indo-Pacifico», che include la cooperazione perché l’Australia si doti di sottomarini a propulsione nucleare; il che ha scatenato le furie dell’Eliseo, che ambiva a quello stesso mercato. L’Australia sta diventando l’avamposto degli Usa nella competizione con la Cina, come si è visto di recente con le isole Salomone. A metà aprile, quando la Cina ha annunciato l’accordo con queste isole, definito come «patto per la sicurezza», è stata l’Australia la prima a chiedere «più chiarezza».

© Riproduzione riservata