Il politologo Ivan Krastev presiede il Centre for Liberal Strategies, è cofondatore dello European Council on Foreign Relations, ha diretto l’edizione bulgara di Foreign Policy, firma editoriali per il New York Times ed è autore di numerosi saggi, tra i quali After Europe e In Mistrust We Trust. Qui spiega perché la guerra in Ucraina è anche questione di opinione, e dove si colloca il premier Draghi.

Qual è oggi lo spazio di agibilità per una soluzione pacifica del conflitto in Ucraina?

Non credo che sia questo il momento: non abbiamo ancora raggiunto quel punto della crisi nel quale entrambe le parti iniziano a pensare di negoziare. La Russia non fa passi avanti sostanziali: domenica è emerso che ha perso un terzo delle forze sul campo in Ucraina; a un certo punto il governo sarà interessato ad avere la pace ma dovrà sostenere di aver ottenuto qualche successo e ancora non controlla Donetsk e Lugansk. Il segretario della Nato ha detto che stando alle analisi di cui dispone certamente l’Ucraina vincerà, ma come va intesa l’idea di vittoria? Poter respingere la Russia fino a ripristinare la situazione prima del 24 febbraio? Espellerla da tutti i territori inclusa la Crimea? Quest’ultima è un punto sensibile per Putin: ha fondato in parte la sua legittimazione politica degli ultimi tempi proprio sull’annessione della Crimea. Ci sono molti aspetti ancora da definire.

Esiste un livello negoziale tacito? Chi sta davvero tentando una de-escalation?

Non si tratta, al momento, di negoziati che maturano verso un punto di svolta per la risoluzione del conflitto. La mia impressione è che le interlocuzioni in corso servano piuttosto a testare alcune idee e ad avere il polso della situazione. Così va letto il colloquio che il segretario alla Difesa Usa ha avviato la scorsa settimana con il ministro della Difesa russo: gli americani tentano un contatto coi russi riguardo all’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato, inoltre cercano di avere il polso sul tipo di armi che useranno, per capire se useranno tipi di armi che non dovrebbero usare. Questo è il fine ora, non cercare un accordo di pace. La mia sensazione è che sarà l’Ucraina a decidere quando e quale pace sostenere. Ho chiesto a un alto funzionario statunitense a quali condizioni gli Usa allevieranno le sanzioni; la risposta è stata che accadrà quando il presidente ucraino andrà a Washington e lo chiederà. Visto che la pace per l’Ucraina è sul terreno, ma per la Russia è anche nel campo economico, quella frase significa che sarà Zelensky – specialmente per gli Usa – a dare il via.

In che modo l’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato si intreccia, o interferisce, con il processo che porta ai negoziati per la pace? Lo rende più ostico?

Può ostacolarlo, ma paradossalmente può anche facilitarlo. La Russia prima dell’invasione ha esplicitato due obiettivi: oltre alla conquista dell’Ucraina, uno riguardava l’architettura di sicurezza europea, la presenza della Nato e dei suoi missili. Ora è chiaro che su questo punto i negoziatori saranno Nato e Russia: non esiste più un’area grigia, c’è un chiaro confine tra occidente e Russia.

Le vicende ucraine hanno convinto non solo questi due paesi ma anche Georgia o Moldavia che restare nel mezzo è una ricetta per la tragedia. La limpidezza su quali saranno i fulcri del negoziato sull’architettura di sicurezza europea, cioè Nato e Russia, non esclude ovviamente che possa esserci una finestra di vulnerabilità tra la richiesta di adesione e la ratifica. La Russia potrebbe porsi in modo aggressivo per mostrare che l’espansione non conviene, e credo che sia i rapporti Ucraina-Russia che quelli Nato-Russia diventeranno più tesi per la scomparsa di zone grigie.

Lei preannuncia un periodo teso. Qual è il ruolo che l’Unione europea gioca oggi, e qual è il ruolo che dovrebbe giocare? Nell’opinione pubblica europea matura la richiesta di un percorso di pace; intellettuali del calibro di Jürgen Habermas la sostengono.

Questa guerra ha molto a che fare con l’opinione pubblica, su più livelli. Per certi versi la stessa unità europea sull’Ucraina è stata in gran parte un risultato della pubblica opinione: l’indignazione iniziale ha spinto i governi, come quello tedesco, a fare scelte che prima non ci si aspettava. Ma più il tempo passa, più l’interesse cala e soprattutto la gente non vuol restare in un conflitto a lungo: la dinamica è questa per ogni guerra, al di là della sua importanza. Il tempo inoltre farà emergere il costo che pagheremo, ad esempio per l’effetto delle sanzioni, il che spingerà una fetta ulteriore di opinione a premere per una fine rapida del conflitto.

Quali sviluppi si aspetta?

Assisteremo a uno scontro, nell’opinione pubblica, tra due diverse posizioni: il party of peace chiederà lo stop alla guerra il prima possibile, non importa quali concessioni l’Ucraina sia forzata a fare a tal fine. E il campo contrario, il party of justice, la cui linea è: la Russia torni alla situazione pre-invasione, senza questa condizione di giustizia non esiste pace possibile.

Lo scontro assumerà forme diverse nei diversi contesti, ma la cosa più importante è che entrambe le parti, sia l’Ucraina che la Russia, quando considerano le proprie mosse o riflettono sulle prospettive negoziali, non si confrontano solo con il campo di battaglia in senso classico; anche il campo di battaglia delle idee è determinante.

In questa guerra è cruciale chi articola questo dibattito, chi riesce a imporre la propria cornice narrativa, e infine chi prevale.

Chi determina questo tipo di polarizzazione, e in che modo? In questa concezione di pace e giustizia come alternative fra loro quanto pesa la sfiducia nella leadership, e quanto influisce la propaganda?

La fiducia è la chiave di tutto. Chi vuole influenzare gli europei prova ad armare la sfiducia. Ci sono alcune analogie rispetto a quanto avvenuto con la pandemia: in tutti i paesi dell’Ue la prima notizia sarà la guerra, e questo contribuirà alla formazione di un’opinione pubblica comune. Proprio come è successo con il Covid, per uno o due anni ogni nostra politica sarà condizionata dal macrotema della guerra. E come è avvenuto per i vaccini, maturerà una polarizzazione, che avrà risonanze diverse nei diversi contesti: nel mio paese, la Bulgaria, si sono vaccinate meno persone che in altri, e questo ci dice qualcosa non solo sul Covid ma anche sulla fiducia. Non conta solo la fiducia nella leadership ma anche quella nei media generalisti, e la Russia da anni ha sviluppato il suo appetito nell’influenzare l’opinione pubblica.

C’è però una differenza rispetto alla pandemia, e cioè che quando la minaccia è di natura umana, come nel caso di una guerra, per i governi è più facile mobilitare le persone. Non significa che sarà facile: nel voto di domenica scorsa il partito del cancelliere tedesco non è andato bene. Ma neppure in Russia l’opinione pubblica è impermeabile, aumentano i furti nei supermercati e la gente inizia a chiedersi: come mai se siamo così grandi non vinciamo?

Quando arriverà a maturazione lo scontro tra il “campo della pace” e della giustizia?

Lo scontro verrà fuori in autunno. Russia e Cina cercheranno di mettere l’accento sui prezzi dell’energia e sulla insicurezza alimentare, dunque il modo in cui saranno gestite queste due crisi sarà rilevante. Inoltre Putin approfitterà delle difficoltà invernali per far pressione sull’Europa e dunque sull’Ucraina. Ma anche lui dovrà scontare le sue debolezze in patria.

Come ha già fatto Viktor Orbán in campagna elettorale, anche la Lega e altri partiti sodali di Putin usano l’argomento della pace. Il Pd sostiene l’invio di armi. Chi resta a spendersi per la pace?

Il Pd sembra nel “campo della giustizia”. Certamente ci sarà chi non potendo sostenere apertamente la Russia si infilerà nel “campo della pace”, visto che un dittatore sconfitto non ha molti amici dichiarati, neanche tra coloro che prima ne sbandieravano le idee conservatrici. Ma sul tema divisivo dell’invio di armi il sentimento antiamericano e anti Nato pesa più di quello filo-Russia. E soprattutto, il campo della pace non è riducibile a questo. C’è una fetta ampia e genuina di sostenitori della pace, inoltre molte persone temono un conflitto nucleare. Ho individuato anche una differenza generazionale: sono i più giovani a propendere per il campo della giustizia. Vogliono vedere i buoni vincere.

I sondaggi danno ragione a Scholz quando dice che il pacifismo è «fuori dal tempo»?

Le rilevazioni suggeriscono che l’idea di fermare l’aggressore è più diffusa tra i giovani, per questa fascia non basta volere la pace per fermare la guerra.

La composizione dei due campi – pace e giustizia – ridisegna anche le fratture politiche? Immagina solo una polarizzazione delle opinioni o anche una ridefinizione degli assetti politici, e veri e propri partiti per la pace?

Questa è una crisi trasformativa: riorienta anche la politica attorno a nuove fratture e opposizioni. Dunque mi aspetto che emergano nuovi partiti oltre che nuovi linguaggi: il punto non sarà solo la guerra, che nessuno ama, ma cosa dovremmo fare noi in questo contesto. Lo spazio politico, ridefinito dall’opposizione tra il campo della pace e quello della giustizia, offre esiti impensabili prima. Ad esempio il partito di governo polacco, il Pis, che considera le mosse di Putin come una minaccia esistenziale, si ritrova sulla stessa linea pro-giustizia dei verdi tedeschi, che ritengono che un dittatore vada punito.

Mario Draghi è nel campo della pace o della giustizia?

Guardando l’Italia da fuori, io credo che il premier Draghi abbia scelto sapientemente di posizionarsi al centro del dibattito, ad esempio sui prezzi dell’energia, o sulla configurazione futura dell’Ue, proprio perché ha ben colto che non stiamo affrontando solo una guerra tra Russia e Ucraina ma una fase trasformativa dell’Europa: questa guerra ridisegnerà la nostra geografia politica. Di sicuro, Draghi cercherà di stare al centro della scena. In quale dei due campi? Credo che la sua posizione sia una delle più sofisticate articolazioni del justice party.

Alla luce del dibattito in corso sull’allargamento e sulla riforma dell’Unione europea, quali sono gli effetti a lungo termine che questa guerra ci consegna?

Le direzioni possono cambiare molto in base a come e a quando finisce la guerra, e tutto questo dipende a sua volta dalla “resilienza” europea: fino a che punto e quanto saremo disposti a sacrificarci? Vedremo la risposta. L’eventualità che la Russia estenda la guerra su scenari che interpreta come vulnerabili – la Moldavia ad esempio – non è ininfluente. Allargare l’Unione non risolve solo i problemi, può anche crearne di ulteriori. Il presidente francese ha proposto l’ipotesi della confederazione, quel che è certo è che non è più tempo per un astratto dibattito tra esperti. Ci sono scelte che non possono più essere posposte.

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