L’orrido attacco di Hamas del 7 ottobre e la sua capacità militare ad infiltrarsi in territorio israeliano prendendo oltre 200 ostaggi e infliggendo a Israele le perdite più pesanti nella sua storia recente, è stata una sorpresa per la stessa Hamas, che pare ora paradossalmente “vittima” del suo successo.

Inizialmente un’operazione di tale portata ha fatto temere che si trattasse dell’incipit di un piano molto più ampio, sotto la direzione di Teheran e con il coinvolgimento di Hezbollah, Houti e delle milizie sciite di Siria e Iraq.

Con il passare delle settimane si è notato al contrario che non si trattava di questo, anzi: le autorità iraniane e di Hezbollah hanno più volte dichiarato la propria estraneità al concepimento e alla realizzazione dell’incursione. Hamas si è così trovata isolata, pur se non è ancora del tutto certo che la ritorsione israeliana a Gaza non provochi una qualche reazione –magari incontrollata- soprattutto sul fronte libanese.

Oltre le intenzioni

Anche i leader di Hamas all’estero pare che non siano stati messi al corrente della preparazione e della decisione dell’attacco. È lecita a questo punto la domanda su quali fossero i reali obiettivi dell’ala militare dell’organizzazione.

Se, come sostengono gli attenti osservatori di al Monitor, ci si limita anche solo al nome dato all’operazione (uragano Al-Aqsa, a cui poi è stato aggiunto un riferimento ai prigionieri), ciò indica che Hamas voleva dimostrare il suo appoggio alle rivolte in Cisgiordania per le ripetute violazioni dell’Haram al-Sharif (la “spianata del tempio” con le due moschee di al Aqsa e cupola della Roccia) e catturare israeliani da scambiare coi circa 6mila palestinesi detenuti.

Entrambi gli obiettivi quindi erano legati alla relazione tra Hamas e la West Bank in vista di una presa del potere anche in quella parte del territorio palestinese. In altre parole si tratterebbe di un attacco motivato dalla lotta intestina tra fazioni palestinesi, quasi in funzione di “campagna elettorale”.

Tuttavia la stessa ala militare di Hamas è rimasta colpita dalla facilità con cui i propri miliziani hanno superato le difese israeliane, inducendo gli assalitori a spingersi sempre più in profondità, come ammesso in un’intervista su al Jazeera da Saleh al-Arouri uno dei fondatori delle brigate al-Qassam.

Com’è noto l’aggressione è durata molte ore durante le quali altre milizie e numerosi cani sciolti sono entrati in modo caotico che Hamas non ha saputo né voluto controllare. Di conseguenza al successo (iniziale) è corrisposta un’assenza di calcolo politico sulle possibili ripercussioni. L’attacco si è rivelato troppo esteso da gestire: qualcosa per cui Hamas non era politicamente e organizzativamente preparata.

Senza reazioni

La probabile distruzione dell’ala militare (quella cioè che ha deciso il 7 ottobre) è già una conseguenza che peserà sul futuro dell’organizzazione, come pure l’impossibilità della leadership esterna ad assumersi interamente i costi politici di tutta l’operazione.

Come si vede gli stati arabi e anche l’autorità palestinese (Anp) di Ramallah, pur non condannando Hamas come organizzazione terroristica, hanno scelto per ora di astenersi da ogni reazione. Malgrado le tensioni in Cisgiordania, la grande “rivolta della rabbia” non ha avuto luogo.

Anche l’Iran e i suoi alleati più stretti si limitano a bordate retoriche. L’unico fronte caldo da cui potrebbero venire sorprese è quello del Libano sud, dove Hezbollah continua a provocare l’esercito israeliano. Ora la domanda che si impone alla leadership di Hamas è come uscire dall’impasse politica in cui si trova: ha irritato i suoi alleati storici (Iran e Hezbollah) come anche i propri garanti politici (Turchia e Qatar); sta assistendo alla fine della propria ala militare; ha ridato legittimità all’Anp; probabilmente ha perso la simpatia degli abitanti di Gaza sottoposti alla pesantissima rappresaglia israeliana.

Superare gli estremismi

Va detto che anche Israele attuale sta ottenendo probabilmente l’opposto di ciò che pensano Benjamin Netanyahu e l’estrema destra di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir: dopo la guerra non potrà mantenere il controllo di Gaza (non lo vogliono nemmeno gli americani che stanno finanziando la guerra di Israele) e dovrà cederla ad una forza di interposizione.

Chiunque sia a costituirla, non accetterà il filtro di Israele ma vorrà rendere operativi il porto di Gaza e l’aeroporto per avere accesso diretto: premessa necessaria all’indipendenza della Striscia. Il dopoguerra darà luogo a diversi paradossi: la possibilità che il futuro stato palestinese possa iniziare a vedere la luce proprio a Gaza; la vittoria militare e la contemporanea fine dell’estrema destra israeliana; la rinascita di un’ala politica pragmatica da entrambe le parti che dovranno ricominciare a negoziare.

Il futuro sarà cioè fuori dal controllo dei due estremismi che stanno conducendo la guerra attuale, a dimostrazione che la polarizzazione politica non ottiene i risultati su cui in genere basa la propria propaganda e la propria azione. 

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