Sia israeliani e palestinesi che russi e ucraini paiono prigionieri di un loop senza apparenti vie di uscita, un po’ come quei romanzi in cui il protagonista si risveglia ogni mattina allo stesso punto del giorno prima. In entrambi i casi le parti in conflitto sembra che facciano di tutto per proseguire il conflitto, accampando entrambe la certezza di una vittoria finale.

Si fa come se il nemico non dovesse esistere. Mentre siamo concentrati sugli eventi di Gaza la guerra in Ucraina si inasprisce. Mosca pensa di avere dalla sua il tempo e i mezzi. L’accordo con la Corea del nord le permette di recuperare molte armi e munizioni che aveva a suo tempo largamente distribuito. Sta costruendo –su licenza iraniana- un numero di droni sufficienti a mettere in scacco ogni controffensiva ucraina, assieme ai missili di cui è abbondantemente dotata.

Dal lato di Kiev si continua a lamentare un appoggio occidentale non all’altezza delle attese, con il timore che Gaza distolga l’attenzione da Kiev: un assurda competizione tra guerre. Il fatto nuovo è il gelo sceso sulle relazioni con la Polonia, fino ad ora l’alleato più esposto in favore di Kiev, a dimostrazione che la pazienza occidentale sta (lentamente) scemando e non regge l’urto degli interessi egoistici (oggi il grano polacco, domani chissà). D’altra parte la scelta di Mosca di sostenere Hamas schiera Israele con l’Ucraina: ora è presto ma se ne vedranno gli effetti. Quasi automaticamente ciò rafforza l’intenzione di proseguire i combattimenti da entrambi i lati.

Contendenti bloccati

In realtà tutti i soggetti impegnati nel conflitto sono come bloccati, messi all’angolo dalle scelte fatte fino ad ora. In primo luogo i russi, incastrati dalla scellerata decisione di invadere un paese limitrofo di cui avevano accettato l’esistenza, riportando la grande guerra in Europa. Si può dire che c’era stata prima la Georgia nel 2008 e poi il Donbass e la Crimea nel 2014, è vero. Ma un’invasione in grande stile ha cambiato tutto e spostato sensibilmente gli equilibri geopolitici globali.

Ora il Cremlino è prigioniero delle sue stesse scelte: se si ferma o torna indietro perde la faccia (e forse il potere). La propaganda di questo anno e mezzo di guerra ha fatto calare sui russi una cappa di vittimismo aggressivo dal quale sarà duro liberarsi. Anche a Kiev i sentimenti sono estremizzati: essere aggrediti e rischiare di perdere tutto ha fatto maturare un sentimento di feroce attaccamento alla terra che rende difficile iniziare una trattativa.

L’odio per la Russia si approfondisce sempre di più e si può comprendere. Chi ne rimane libero –si pensi ai molti volontari che aiutano e soccorrono senza armi- merita tutto il nostro rispetto. Dopo la guerra scopriremo (in ritardo come al solito) che ci sono stati dei “giusti” da entrambi i lati che non hanno ceduto alla politica dell’odio e che hanno salvato vite in mezzo alla bufera della guerra, rimanendo umani in un mondo disumanizzato. Per ora vediamo solo i fumi delle bombe, morte e immani distruzioni: una cortina che ci impedisce lo sguardo profondo. Imprigionati dalle proprie scelte sono anche gli occidentali: la politica bellicista di questi mesi mette in crisi ogni lucidità.

Logica bellicista

C’è anche la tentazione di legare ogni guerra a quella precedente, cercando un nemico comune. Dopo aver gridato per mesi “più armi, più armi”, ora –spompati e insoddisfatti- i sostenitori della guerra ad oltranza si riducono ad una sola affermazione: la guerra non si può fermare. E’ falso: ogni guerra può essere fermata e in ogni momento. A Kiev come anche a Gaza. Ma la logica e l’ideologia belliciste hanno creato un circolo vizioso del pensiero: lui non si ferma, quindi nemmeno noi, perché è sempre l’altro a dover iniziare per primo. La responsabilità politica perde così tutto il suo senso e ci si rifugia in un corto circuito senza sbocchi. Ciò che invece servirebbe è un soprassalto di consapevolezza: la guerra è un ingranaggio infernale che segue una sua propria logica interna che la induce a non fermarsi mai. Magari trasformarsi con varie intensità, spostarsi su terreni contigui o allargarsi ad altri campi, ma non fermarsi. Di conseguenza una coscienza morale e politica seria dovrebbe dirigersi verso la decisione di fermarla. Non bisogna lasciarsi accecare da argomentazioni legate alla vittoria: sappiamo bene che quella della vittoria è una questione inquinata dalla propaganda (che è un’arma di guerra). Pace giusta significa pace nel rispetto dei diritti ucraini: in Ucraina significa recuperare i propri territori e avere garanzie di sicurezza per il futuro. Orbene: ciò non si può ottenere con la guerra e nemmeno –occorre osare dirlo- con la vittoria. Ogni vittoria è effimera come dimostrano i ripetuti e precedenti conflitti europei (concatenati uno all’altro), a meno di non uscire dalla logica del vincitore/vinto per passare a quella collaborativa. Ancor più difficile seguire tale logioca a Gaza. Chi deve fare il primo passo? Chi ne ha più consapevolezza, cioè l’Occidente. Per spegnere il (falso) vittimismo nazionalista russo e la paura dei paesi frontalieri con Mosca, va immaginato un programma di riavvicinamento (non ingenuo ma paziente e verificabile) che non può darsi finché continuano i combattimenti. E’ difficile negoziare con i russi -di oggi come di ieri-, ne siamo tutti dolorosamente coscienti. Ma l’alternativa della guerra infinita non è certo migliore. Ciò vale anche tra israeliani e palestinesi: l’odio acceca ma la soluzione è davanti ai nostri occhi. In 75 anni lo scambio terra per pace non si è voluto fare: occorre far di tutto per convincere le parti a realizzarlo.

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