Quando nel 1996 è stata data alla Federazione russa la possibilità di aderire al Consiglio d’Europa questa è stata vista come il riconoscimento della naturale identità europea della Russia, ma anche come un incentivo a una più celere transizione democratica.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sarebbe poi entrata in vigore in Russia nel 1998, segnando una tappa fondamentale nella storia europea.

L’altro ieri il ministero degli Esteri russo ha annunciato che la Russia non parteciperà più alle riunioni del Consiglio d’Europa essendosi trasformato in una piattaforma usata per veicolare il «narcisismo occidentale».

Per la Federazione russa «il corso degli eventi è diventato irreversibile e non vi è alcuna intenzione di sopportare le azioni sovversive intraprese dall’occidente, che spinge per un ordine basato sulle regole e sulla sostituzione del diritto internazionale calpestato dagli Stati Uniti e dai suoi satelliti».

Quanto sta avvenendo, secondo Mosca, sarebbe un tentativo di «NatoUe» di «trasformare la più antica organizzazione europea in un altro luogo dove vengono esaltati i mantra della supremazia e del narcisismo dell’occidente».

La richiesta di adesione

È questo forse l’esito definitivo di un complesso percorso che ha provato a integrare la Russia nelle istituzioni sovranazionali europee. Del resto, il 7 maggio 1992, sotto la presidenza di Boris Eltsin, la Russia aveva inoltrato una formale richiesta di adesione.

Ma già nel 1996 alcuni delegati nazionali dei paesi europei facevano notare come quella russa fosse una situazione «particolarmente problematica» e che segnalava una tendenza già in contrasto con le prime aperture del post sovietismo.

Peraltro, nel 1994 era cominciata la prima guerra in Cecenia. Allo scoppiare della seconda guerra cecena, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa aveva già raccomandato al Consiglio dei ministri di sospendere il diritto di voto della delegazione russa oltre all’appartenenza della Russia al Consiglio d’Europa.

Anche in quel caso la Russia aveva denunciato l’«approccio unilaterale» del Consiglio d’Europa e negato di essere responsabile delle ostilità in Cecenia. I presupposti potevano dunque sembrare molto instabili sin dall’inizio dei rapporti con il Consiglio d’Europa.

L’ascesa di Putin

Eppure, con il passare degli anni, l’ordinamento giuridico russo era arrivato a riconoscere il ruolo della Convenzione. Ad esempio, la Corte costituzionale russa aveva cominciato a citare i precedenti della Corte di Strasburgo.

Con l’ascesa al potere di Vladimir Putin la situazione, mese dopo mese, è peggiorata. In un rapporto del giugno 2005 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa denunciava la «situazione di incompatibilità con i fondamentali principi democratici della separazione dei poteri».

La regressione democratica non aveva però mai messo in dubbio l’appartenenza della Russia alla famiglia europea che gravita attorno al Consiglio d’Europa. Solo alcune voci dissidenti, come quella del deputato del partito Rodina, Nikolay Pavlov, chiedevano alla Federazione russa di tagliare i rapporti con l’organizzazione di Strasburgo.

È soprattutto dal 2010 che la Corte costituzionale russa ha cominciato a posizionarsi in una maniera molto critica rispetto alle pronunce della Corte di Strasburgo. Una legge federale del 2014 ha addirittura previsto che qualora la decisione di un «organo interstatale per la tutela dei diritti e delle libertà dell’uomo» diventasse un ostacolo per l’applicazione di disposizione di legge nazionali sarebbe stato possibile fare ricorso alla Corte costituzionale per verificare la costituzionalità di tali disposizioni (art. 101, comma 2).

Il caso Markin

Queste tensioni erano già presenti a partire dal caso Markin (2010), una decisione con cui la Corte di Strasburgo aveva stabilito che la possibilità di garantire l’aspettativa per motivi familiari dovesse essere garantita sia agli uomini che alle donne.

Konstantin Markin, militare dell’esercito russo, aveva perso il suo caso davanti alle corti interne e, nel 2009, la Corte costituzionale russa aveva stabilito che fosse ragionevole garantire l’aspettativa familiare alle sole donne anche alla luce dell’impiego militare del ricorrente.

Con la sua decisione la Corte di Strasburgo invitava la Federazione russa a modificare le norme della legislazione nazionale la cui costituzionalità era stata confermata solo un anno prima dalla Corte costituzionale.

Dopo la decisione di Strasburgo, il presidente della Corte costituzionale, Valery Zorkin, aveva pubblicato un saggio accademico sui «limiti dell’esecuzione». Un contributo in cui criticava gli «zelanti internazionalisti» che fanno di tutto per «realizzare il loro progetto di accelerazione della globalizzazione a qualunque costo».

La legge del 2014 è stata così utilizzata, tra le altre cose, per negare il risarcimento agli azionisti della società petrolifera Yukos andata in bancarotta a causa dei controlli delle autorità fiscali russe riconosciuti dalla Corte di Strasburgo come illegittimi in quanto in violazione dell’articolo 6 della Convenzione e dell’articolo 1 del primo protocollo opzionale.

Per la Corte costituzionale russa i soldi dell’erario non potevano essere utilizzati per risarcire gli azionisti a seguito della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il caso del crocifisso

Nel 2009 quando la Corte di Strasburgo, chiamata a decidere sul caso relativo all’affissione del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane ne aveva dichiarato la violazione delle disposizioni della Convenzione, Hilarion, metropolita di Volokolamsk e presidente del Dipartimento per le relazioni esterne della chiesa di Mosca, aveva inviato una lettera al segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone: «Tenendo conto del fatto che le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno chiaramente perso qualsiasi connessione con la realtà giuridica e storica in cui molti europei vivono, e che la Corte si è trasformata in uno strumento di promozione dell’ideologia ultra liberale, crediamo sia importante che le comunità religiose europee possano avviare una discussione circa il suo funzionamento».

Nello stesso periodo, il Patriarca Kirill aveva inviato una lettera all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Vi si legge: «Il patrimonio cristiano dell’Italia e di altri paesi non dovrebbe costituire oggetto della competenza delle istituzioni europee che si occupano di diritti umani».

Il report annuale della Corte europea dei diritti dell’uomo pubblicato lo scorso febbraio segnala la Russia, con 219 condanne, come il paese che nell’ultimo anno ha commesso più violazioni della Convenzione. L’abbandono del Consiglio d’Europa era forse già scritto nel destino. Sicuramente nella teologia che l’aveva già largamente anticipato.  
 

© Riproduzione riservata