Mentre l’inflazione cresce verso il 40 per cento annuo e la Banca centrale turca finalmente sospende, nel mezzo di una drammatica crisi economica e valutaria, la nefasta politica di abbassare i tassi, il governo neo ottomano di Ankara non trova di meglio che mettere in cantiere il cambio del suo nome ufficiale, riconosciuto a livello internazionale nell’idioma di Shakespeare, da Turkey in Türkiye cercando di farlo registrare a breve alle Nazioni unite di New York.

Il governo Erdogan – riporta il sito Middle East Eye – potrebbe cambiare il nome del paese con una notifica al registro delle Nazioni unite ma la lettera “ü”, che non è compresa nell’alfabeto latino, potrebbe essere un serio problema.

Türkiye in turco significa appunto Turchia. Ma perché questa svolta alla ricerca delle identità perdute? Erdogan sente vacillare il suo potere e la sua popolarità sotto i colpi di una profonda crisi economico-valutaria e per distogliere l’attenzione dei turchi dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, dalle lunghe file davanti ai panifici, dalle proteste di piazza di chi non arriva a fine a mese con i salari falcidiati dall’inflazione, ha lanciato questa campagna per ritrovare l’identità nazionale in senso neo ottomano. Secondo il presidente Erdogan «Türkiye è la migliore rappresentazione ed espressione della cultura, della civiltà e dei valori del popolo turco».

Insomma è ora di mettere in soffitta l’ambigua parola Türkey, per di più simile in inglese alla parola «tacchino» o peggio «grullo» per tornare alle origini turche del nome nazionale.

Le ambasciate, la rete pubblica Trt internazionale e l’agenzia di stampa ufficiale Anadolu stanno usando questa nuova dizione nei loro rapporti in inglese. Anche le aziende esportatrici dovranno sostituire la dizione anglofona «made in Turkey» con il più nazionale «made in Türkiye».

Non solo Erdogan

La necessità di attenuare la propria identità nazionale e di lanciare messaggi europeisti è alla base della scelta che l’ex presidente francese Giscard d’Estaing, profondo europeista nonché autore con Giuliano Amato della Costituzione europea poi bocciata da un referendum popolare dei suoi concittadini, ha fatto nel 1976.

Una modifica al blu della bandiera nazionale, attenuandolo, per cercare di avvicinarlo a quello della bandiera europea che, per molti analisti, è molto vicino al colore del manto della Madonna, a riprova delle origini cristiane del Vecchio Continente.

Ma sicuramente Giscard, profondo difensore della laicità repubblicana e delle origini anti clericali della Rivoluzione del 1789, su questa interpretazione non sarebbe stato d’accordo. Anzi proprio lui si è opposto alle richieste di mettere nel preambolo della Costituzione Ue la formula sulle origini «giudaico-cristiane» dell’Europa.   

In ogni caso il presidente Emmanuel Macron nel 2020 ha cambiato di nuovo ed è tornato al colore più scuro nel tricolore per richiamare il drappo francese del 1793, con un evidente riferimento alla Rivoluzione francese.

Anche altri paesi hanno cambiato nome in passato. Come la Birmania negli anni Novanta, che è diventata Myanmar sotto la spinta dei generali al potere che ne volevano recuperare l’identità rispetto alla storia coloniale.

Anche la Svizzera, per evitare contrasti tra i diversi cantoni con le quattro lingue ufficiali, si definisce internamente con una parola latina, Helvetia, ma non ha scomodato l’eredità di Guglielmo Tell né ha cercato di modificare la definizione inglese del piccolo paese alpino (Switzerland).

La Repubblica ceca ha cercato di imporre il nome Czechia ma senza molto successo. Come anche la Repubblica del Nord di Macedonia ha potuto usare la parola Macedonia solo dopo un faticoso accordo con la Grecia del premier Alexis Tsipras che ne rivendicava il nome per una sua provincia e la costringeva a usare internazionalmente il nome di  FYROM (Former Yugoslav Republic Of Macedonia).

Modificare i nomi o i colori del drappo nazionale è questione molto delicata e andrebbe fatto con estrema cautela. I rischi di un fallimento rispetto agli obiettivi prefissati sono sempre in agguato.

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