La delegazione italiana è arrivata alla frontiera con Gaza, mentre arrivano le notizie dell’uccisione del capo di Hamas, Mohammed Sinwar, e le ulteriori centinaia di vittime della grande offensiva dell’Idf
Il valico di Rafah è vuoto. Così come la strada percorsa per arrivare a questo unico punto di frontiera tra l'Egitto e la Striscia di Gaza. Un contrasto visivo netto rispetto a qualche mese fa, quando era impossibile riuscire a contare i tir fermi in fila ad aspettare per entrare. La carovana italiana di "Gaza oltre il confine", composta da parlamentari ed eurodeputati delle opposizioni, dai rappresentanti di Aoi, Arci, Assopace Palestina, Acs, e da giornalisti, è arrivata al valico di Rafah la mattina presto.
Sono presenti solo gli operatori della Croce Rossa e i medici egiziani. Il silenzio è interrotto dal suono dei boati dell'artiglieria e dalle bombe dell'aviazione israeliana. I rumori della guerra si sono sentiti per tutta la notte anche nella città egiziana di Al Arish, che dista poco meno di 50 chilometri.
Cancelli sbarrati
La carovana è arrivata fin qui per chiedere, tra le altre cose, la fine dell'occupazione e dell'impunità per i crimini internazionali commessi, il cessate il fuoco, l'ingresso degli aiuti e l'embargo alla vendita di armi allo stato ebraico. L'obiettivo era anche quello di entrare a Gaza, «ma quel cancello è rimasto sbarrato».
Da oltre 70 giorni Gaza è sotto assedio. Se non sono l'infinità di bombe sganciate dall'Idf negli ultimi 18 mesi, a uccidere sono la malnutrizione e il mancato accesso alle cure mediche. Eppure sono circa diecimila, secondo l'Onu, i camion pronti a entrare, di cui oltre mille da Rafah. Di fronte al valico la carovana ha organizzato un'azione dimostrativa esponendo giocattoli e vestiti per bambini. I presenti hanno chiamato in causa direttamente i leader internazionali. I cartelli nelle mani della delegazione italiana mostrano i volti di tutti i leader europei e dell'Ue, oltre alla scritta "stop genocide now". Ai loro piedi uno striscione recita: "Stop complicity".
«Ci chiedono che cosa aspetta l’Europa? Di fronte a due milioni di persone che stanno morendo non solo per le bombe e la fame ma anche per l’assenza di diritti e libertà, ancora non si alzano gli scudi», dice Valentina Venditti di Ciss che da anni è attiva con progetti solidali nella Striscia.
Rachele Scarpa, deputata del Partito democratico, chiama in causa «il governo italiano affinché faccia e dica qualcosa con tutti i mezzi che ha disposizione». «Non sentiamo le voci di Gaza, ma sentiamo le bombe, siamo qui per dire che ci sentiamo responsabili ma non vogliamo essere complici di questo genocidio», è il commento, invece, di Marco Grimaldi di Avs.
Appena arrivato al valico, Yousef Hamdoun ha chiamato la sorella. A separarli una decina di chilometri di barriere e macerie. Hamdoun, della ong Educaid, è riuscito a evacuare da Gaza poco dopo il 7 ottobre. Nato e cresciuto nella Striscia, tutta la sua famiglia è ancora lì. Ogni giorno è in contatto con loro e ogni chiamata è carica dello stesso dolore. Indossa una maglietta con la scritta: «Se a Gaza c'è crisi umanitaria, nel resto del mondo c'è crisi di umanità».
Il prezzo del pane
«Il blocco degli aiuti è uno strumento per distruggere l'unità e l'identità dei palestinesi. In una situazione simile, anche chi ti circonda rischia di diventare un competitor nella lotta per la sopravvivenza», racconta Youssef. «Chi ha anche solo un piccolo pezzo di pane lo vende a prezzi allucinanti. Le persone iniziano a percepire meno solidarietà interna. Ognuno pensa alla propria sopravvivenza. Ricordo ancora quando mio fratello mi ha chiamato in lacrime perché aveva mangiato l'ultimo pezzo di pane. Lo aveva fatto nel bagno e di nascosto. Si sentiva in colpa di non averlo condiviso con il resto della famiglia».
Se non si arriva a una tregua, sua sorella, invece, dovrà lasciare l'area in cui si trova, perché rischia di essere al centro delle prossime operazioni via terra dell'Idf. Tutto è riposto nell'ultimo tentativo di mediazione in corso in Qatar. Quando la carovana lascia il valico, il volto di Hamdoun è scavato dalle lacrime ma riesce a trovare la forza per salire sul pullman. Dopo il primo scalino si sofferma e guarda verso la Striscia, inviando un bacio verso la sua Gaza.
Mentre l'autobus si sposta verso i magazzini di stoccaggio della Croce Rossa egiziana, i media internazionali raccontano di altre centinaia di vittime nella notte, tra cui cinque giornalisti, e della morte di Mohammed Sinwar.
Vicino Rafah ci sono due grandi magazzini, il primo, di 30mila metri quadri è stracolmo, Il secondo, grande quasi il doppio, è in fase di ampliamento. A pochi minuti di distanza c'è l'hub di stoccaggio dove ci sono tutti i pallet rifiutati. Le regole d'ingaggio dell'esercito israeliano sono rigidissime. Lofty S. Gheit, head of operation and strategic communication della Croce Rossa egiziana, si prende diversi minuti per elencarle tutte. Nel tendone dei pacchi rigettati ci sono sedie a rotelle e stampelle. «Respinte perché c'è il ferro», spiega. I sacchi a pelo, invece, sono stati rispediti al mittente perché di colore verde militare. Un kit di giochi per bambini che contiene pupazzi e palloni non può entrare perché il box che li contiene «non andava bene».
L'inventario è grande: ci sono bombole di ossigeno, generatori diesel, torce alimentate da pannelli solari, ruote di automobili e medicinali. Tanti medicinali. Delle unità refrigeranti custodiscono vaccini, insulina e altri farmaci essenziali per patologie comuni. Servono per conservarli in attesa dell'usura del tempo. «A volte qualcuno osserva che la varietà di materiali rifiutati non è tanta. Ma sono quelli più essenziali per portare a termine il nostro lavoro», dice S. Gheit. «Siamo pronti a inviare tutto, le porte dell'Egitto sono aperte, quelle dell'altro lato no».
© Riproduzione riservata



