Nei raid israeliani si contano altre 250 vittime in meno di 36 ore. Anche il presidente Trump di ritorno dal suo business tour nei paesi del Golfo scopre che «a Gaza si muore di fame». Sono almeno 120 mila i palestinesi evacuati in Egitto. Tra questi attivisti, operatori e giornalisti: ecco le loro testimonianze
Il Cairo – «Io sto bene, però mio fratello e sua moglie sono feriti. Siamo a Jabalia e la situazione è molto pericolosa».
Nella notte tra giovedì e venerdì l’esercito israeliano ha bombardato il nord della Striscia di Gaza tra Jabalia e Beit Lahiya, colpendo anche una scuola riconvertita in rifugio per gli sfollati. Nelle ultime 36 ore si contano 250 palestinesi uccisi, di cui 100 negli ultimi attacchi che nella notte hanno colpito da nord a sud.
«Siamo a casa, non sappiamo dove andare. Nessun posto è sicuro», racconta Majed al Shorbaji a Domani. Con la moglie incinta e un’autorizzazione a lasciare la Striscia che le autorità israeliane non vogliono concedere, Majed cerca di sopravvivere. «Mia moglie sta male e partorirà a breve», racconta impaurito. Oggi, oltre a cercare un rifugio deve anche capire come sfamare la sua famiglia.
A Gaza la situazione è al collasso, il blocco ermetico in corso è il più lungo dal 7 ottobre 2023. Lo ha riconosciuto anche il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump: «Molta gente muore di fame», ha detto di ritorno dal suo business tour nei paesi arabi del Golfo. Mentre il Consiglio d’Europa ha denunciato una «carestia deliberata» in corso nella Striscia. «È giunto il momento di trarre conclusioni morali dal trattamento dei palestinesi», ha detto Dora Bakoyannis del Consiglio d’Europa per il Medio Oriente.
Ora anche per l’Onu l’escalation in atto a Gaza «equivale ad una pulizia etnica», per dirla con le parole di Volker Turk, Alto commissario Onu per i diritti umani.
Chi sarà il prossimo
«Ognuno aspetta il suo turno. Ci si domanda chi sarà il prossimo», dice Ahmed Jad, giornalista e direttore di Al Ayyam, a margine dell’evento organizzato dalla delegazione italiana composta da parlamentari, ong e giornalisti arrivata in Egitto per recarsi al valico di Rafah. Jad oggi si trova al Cairo, ha lasciato la Striscia insieme a sua figlia e alcuni nipoti il 14 aprile del 2024. Sua moglie e altri tre figli sono ancora lì. Tutti i giorni è in contatto con loro. Sua sorella, invece, è stata uccisa in un raid aereo insieme ad altri 23 membri della sua famiglia. Di quel bombardamento c’è solo un sopravvissuto.
«L’esercito israeliano ha ucciso mio padre. E mia madre è morta per le sofferenze dovute ai trasferimenti forzati e alla malnutrizione». Il racconto di Abdel Nasser Abu Aoun, giornalista freelance anche lui rifugiato in Egitto, non è diverso. Ogni gazawi ha una storia di dolore, massacro e ingiustizia che sente il dovere di raccontare. Ed è quello che sta provando a fare la diaspora palestinese composta da operatori umanitari, giornalisti e attivisti, che oggi ha trovato rifugio in Egitto: denunciare le violazioni del diritto internazionale.
Ahmed Jad ha sessant’anni e fa il mestiere del giornalista dalla prima Intifada, dal 1988. Ogni mattina riceve messaggi e notizie dai suoi tre inviati distribuiti tra il nord e il sud della Striscia. «Appena c’è un attacco si muovono verso l’area colpita per raccogliere notizie di prima mano», spiega. Con un litro di benzina che arriva a costare fino a 70 dollari, ci si sposta a piedi o su carretti trainati da animali scheletrici e stremati. Le notizie raccolte vengono poi girate nella sede principale della redazione che si trova a Ramallah.
«Ma non sempre c’è connessione per inviare i materiali». Si lavora in luoghi di fortuna. Tende, strade e case danneggiate sono diventate i nuovi luoghi di lavoro dopo che in 18 mesi sono stati bombardati 143 tra sedi, uffici e redazioni. Quarantotto giornalisti sono stati incarcerati nelle prigioni israeliane e 217 sono stati uccisi, spiega Jad. Quasi quattrocento sono rimasti feriti, di cui molti sono diventati disabili.
Numeri amplificati anche dall’assenza di dispositivi di protezione individuali che l’Idf non fa entrare nella Striscia. «I giubbotti con la scritta “Press” e gli elmetti che indossano non sono adeguati. Non forniscono alcuna protezione. Sono giubbotti fatti di spugna, servono solo per essere identificati come giornalista o operatore dei media, ma non proteggono», dice Abu Aoun. E poi c’è il dolore psicologico, quello causato dai disturbi post traumatici da stress. «Quando un giornalista racconta una notizia sa che c’è un’alta probabilità che racconterà un fatto che riguarda un familiare, un amico, un collega o persone a lui care. Nonostante tutto continuiamo a fare il nostro lavoro, è importante raccontare quello che stiamo vivendo». Come dice Jad, «ogni palestinese ha una storia da racchiudere in un libro».
L’anima è a Gaza
I ricordi di Jad sono nitidi e i suoi occhi lucidi quando racconta come la casualità lo ha salvato dalla morte. Durante la ricerca di un rifugio insieme alla sua famiglia, erano indecisi se fermarsi in un garage dove il proprietario si era proposto di accoglierli. «Dentro c’erano già otto persone e abbiamo deciso di andarcene». Pochi minuti più tardi l’edificio accanto è stato bombardato ed è crollato sopra quel garage. In questi mesi ha vissuto di tutto. Quando ha visto i corpi dei suoi cari uccisi, non aveva più lacrime. Troppi gli orrori vissuti. «Non riesco più a esprimere i miei sentimenti. Sono fermi, congelati. Ho visto situazioni terribili, che non riesco a spiegare». Jad non vede l’ora di tornare a casa e riabbracciare la sua famiglia. Così come Abu Aoun: «Vi parlo da qui dall’Egitto con il mio corpo, ma la mia anima è a Gaza. Il nostro mondo è dentro la Striscia».
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