Il 1° agosto gli Stati Uniti hanno annunciato ufficialmente l’eliminazione di Ayman al Zawahiri, il leader di al Qaida. Dopo mesi di raccolta e verifica delle informazioni a Kabul, al Zawahiri sarebbe stato ucciso il 31 luglio da due missili lanciati da un drone, mentre si trovava sul balcone di un’abitazione della capitale afghana, a poca distanza dalla zona delle ambasciate; nessun’altra persona sarebbe rimasta uccisa nell’attacco aereo, pianificato ed eseguito dalla Cia.

Appare evidente che il movimento dei Talebani, ritornato al potere in Afghanistan un anno fa, abbia accettato di ospitare il leader di al Qaida, nel centro della propria capitale, preferendo, in modo non sorprendente, la storica alleanza con l’organizzazione jihadista fondata da Osama Bin Laden agli impegni assunti con gli Stati Uniti, in particolare nell’accordo ufficiale di Doha del febbraio 2020. Per l’amministrazione Biden l’eliminazione della guida di al Qaida rappresenta un importante successo politico, almeno nel breve periodo, conseguito proprio nel paese e nella città in cui nell’agosto del 2021 gli Stati Uniti subirono una cocente umiliazione.

Chi è al Zawahiri

Con l’attacco di Kabul è giunta al termine una militanza estremistica durata oltre mezzo secolo. Infatti, Ayman Muhammad Rabie al Zawahiri, nato in Egitto nel 1951 in una famiglia di elevata estrazione sociale e culturale, già all’età di 14 anni mostrava interesse per questioni politiche in forma radicale.

Ancora adolescente, il futuro leader di al Qaida entrò a far parte dei Fratelli musulmani, l’influente movimento islamista fondato nel 1928 proprio in Egitto, e subì notevolmente l’influenza del pensiero rivoluzionario del concittadino Sayyid Qutb, uno dei più rilevanti pensatori islamisti del Novecento, tra i padri spirituali del jihadismo contemporaneo.

Subito dopo l’impiccagione di Qutb, eseguita nel 1966 per il suo coinvolgimento in un piano di assassinio ai danni del presidente egiziano Nasser, al Zawahiri, appena quindicenne, iniziò ad impegnarsi in prima persona in attività clandestine, con l’obiettivo di rovesciare con la violenza il governo del proprio paese e sostituirlo con uno “stato islamico”, alla luce di una visione politica ed estremistica della religione. Negli anni Settanta al Zawahiri contribuì anche a fondare l’organizzazione terroristica Jihad islamico egiziano. Nel 1981 fu nel novero delle centinaia di militanti arrestati a seguito dell’uccisione del presidente egiziano Sadat.

Nel frattempo, il futuro leader di al Qaida, dopo la laurea in medicina al Cairo nel 1973, aveva avviato una carriera da chirurgo. In questa veste dal 1981 si recò più volte nella città di Peshawar, nel Pakistan occidentale. Nel 1986 incontrò Osama Bin Laden, all’epoca impegnato nella lotta armata contro l’occupazione sovietica del vicino Afghanistan.

Al Zawahiri partecipò attivamente all’ascesa del gruppo armato di Bin Laden; nel giugno del 2001, decise persino di sciogliere ufficialmente il Jihad islamico egiziano, di cui era diventato leader, nella stessa al Qaida. Al Zawahiri consolidò inoltre la sua posizione di fidato e influente braccio destro di Osama bin Laden, dedicando particolare attenzione alle questioni ideologiche e strategiche. Ebbe anche un ruolo di primo piano nella progettazione di attacchi terroristici sanguinosi, a cominciare dalla catastrofe dell’11 settembre.

Nel 2011, poche settimane dopo l’uccisione di Bin Laden in Pakistan, nessuno fu sorpreso dal fatto che la leadership di al Qaida venisse ufficialmente affidata proprio al “Dottor al Zawahiri”, come veniva spesso chiamato nell’ambiente qaidista, in omaggio alle sue originarie credenziali professionali.

Leadership contrastata

Oggi, a pochi giorni dalla sua uccisione, i giudizi sull’operato di Ayman al Zawahiri alla guida di al Qaida appaiono contrastanti. Da un lato, il secondo emiro di al Qaida non ha mai mostrato il carisma personale del predecessore; i suoi video, per esempio, tendevano ad assumere il formato della tediosa predicazione su questioni dottrinali, finendo per essere scarsamente incisivi sul piano della propaganda, tanto più in confronto ai sofisticati prodotti del cosiddetto Stato islamico. Inoltre, al Zawahiri ha incontrato difficoltà nel controllare direttamente le branche regionali della rete di al Qaida, specialmente in Siria, e nel definire e attuare la strategia dell’organizzazione a livello transnazionale.

Dall’altro lato, nel complesso, al Zawahiri ha saputo affrontare sfide assai impegnative per il gruppo armato, resistendo tanto all’attività di repressione dei nemici esterni quanto alla competizione dei rivali jihadisti, a cominciare dallo Stato islamico. Persino durante gli anni d’oro dell’autoproclamato Califfato (approssimativamente dal 2014 al 2019), al Qaida, pur oscurata dal suo ingombrante concorrente nel campo jihadista, non si è irrimediabilmente indebolita. Oltretutto, nonostante una riduzione di interesse per le attività terroristiche in occidente, militanti legati a gruppi qaidisti sono stati in grado di portare a termine attacchi anche in Europa e in America, come hanno dimostrato i casi dei fratelli Kouachi, responsabili della strage nella sede di Charlie Hebdo a Parigi il 7 gennaio 2015, e di Mohammed Saeed Alshamrani, autore di un attacco all’interno della base militare di Pensacola, in Florida, il 6 dicembre 2019. Analogamente ad al Qaida, al Zawahiri ha dimostrato notevole perseveranza nella sua missione estremistica. Sin dall’autunno del 2020 era circolate voci ricorrenti secondo cui l’anziano emiro di al Qaida, costretto a nascondersi da decenni, sarebbe morto per cause naturali nella regione afghano-pakistana.

Alcuni recenti video di propaganda ufficiale, in cui il leader compariva come protagonista, avevano già sconfessato tali ricostruzioni. Se è vero che, come tanti altri leader jihadisti prima di lui, alla fine anche al Zawahiri è caduto, vittima della soverchiante forza militare dei propri nemici, è altrettanto vero che la sua militanza clandestina, ai massimi livelli della galassia jihadista (prima egiziana, poi di portata globale), è stata straordinariamente lunga e, purtroppo, assai rilevante.

La successione

Con la dipartita di al Zawahiri, si apre la corsa per la successione al vertice di al Qaida. Al momento vi è incertezza sul nome del possibile erede. Numerosi dirigenti di primo piano (come l’egiziano Abu Muhammad al Masri) o eredi diretti (come Hamza Bin Laden, figlio del fondatore) sono stati uccisi.

Tra le figure di spicco ancora in vita, il nome più accreditato è quello di un altro egiziano, il sessantenne Saif al Adl, militante di lungo corso, con un’ampia esperienza militare, notevole prestigio personale tra le cerchie jihadiste e rapporti non particolarmente conflittuali con i rivali dello Stato islamico.

D’altra parte, secondo le informazioni disponibili, la libertà di azione di al Adl al momento sarebbe fortemente limitata dal fatto di essere ancora confinato in Iran, a causa di un accordo per uno scambio di prigionieri raggiunto nel 2015 tra il governo del paese a maggioranza sciita e l’organizzazione jihadista.

Come alcuni studiosi e analisti hanno già ipotizzato, un’eventuale successione a favore di Saif al Adl potrebbe condurre a un aumento della robustezza organizzativa e delle capacità offensive di al Qaida. In ogni caso, l’organizzazione fondata da Bin Laden, attiva in più continenti, continuerà a rappresentare una minaccia rilevante.

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