L’atteso colpo dell’Antitrust statunitense ad Amazon è stato infine sferrato. La Federal Trade Commission (Ftc), l’autorità garante dei consumatori, ha depositato insieme ad altri 17 stati una causa contro la società di Jeff Bezos. Il documento, lungo 172 pagine, accusa il colosso da 1.300 miliardi di dollari di esercitare un monopolio e di applicare pratiche illegali per frenare la concorrenza.

La causa

A giugno Amazon era già stata coinvolta in un’indagine della Ftc: la commissione aveva denunciato una violazione delle norme a protezione dei consumatori, che sarebbero stati portati in modo ingannevole a iscriversi a Prime e avrebbero incontrato poi difficoltà nell’annullare l’abbonamento.

Adesso, la causa abbraccia le operazioni di Amazon a tutto tondo: «ha usato una serie di tattiche punitive e coercitive per mantenere i suoi monopoli», sono le parole della presidente della Ftc Lina Khan nel comunicato rilasciato.

Tra queste tattiche, ci sarebbero delle misure che scoraggiano i venditori ad applicare prezzi più bassi su altri siti nascondendo i loro prodotti dalle ricerche, o anche togliendo dalla loro pagina il Buy Box, il pulsante che permette di passare immediatamente all’acquisto senza vedere altri suggerimenti. La ricerca dei prodotti poi favorirebbe quelli a marchio Amazon, contro quelli di altri venditori anche se di migliore qualità. Venditori che tra le quote che devono pagare per la pubblicità, e quelle mensili dovute su ogni prodotto venduto, secondo la Ftc finiscono per lasciare ad Amazon quasi il 50 per cento dei loro ricavi, con un’inevitabile ricaduta sui prezzi.

Un’altra condotta individuata dalla Ftc è la tendenza a vincolare l’appartenenza al pacchetto Prime, che già di suo è ormai indispensabile per vendere su Amazon, all’utilizzo del servizio di logistica interno, che è particolarmente oneroso per il venditore e renderebbe quasi impossibile accollarsi i costi di altri magazzini per vendere anche sulle altre piattaforme. 

Amazon ha respinto queste accuse. Per David Zapolsky, vice presidente, la vittoria della Ftc comporterebbe «una minore offerta di prodotti tra cui scegliere, prezzi più alti, tempi di consegna più lunghi e opzioni ridotte per le piccole aziende».

Il paradosso dell’antitrust

Lo scontro tra l’Antitrust e Amazon si era profilato all’orizzonte nel 2021, quando Joe Biden aveva nominato a capo della Ftc proprio Lina Khan, giurista nota per la sua decisa posizione interventista sulla concorrenza e nello specifico per aver individuato nelle realtà mastodontiche come Amazon l’angolo cieco delle politiche di antitrust moderne.

Allora, Amazon aveva chiesto la ricusazione di Khan, ritenuta portatrice di un pregiudizio, ma la richiesta era stata respinta.

Nata a Londra in una famiglia di origine pakistana, Lina Khan si è trasferita negli Stati Uniti a 11 anni. Laureata al Williams College nel 2010 con una tesi su Hannah Arendt, lo scritto che le è valso immediata risonanza è però un articolo pubblicato sul Yale Law Journal nel 2017: Il paradosso dell’antitrust di Amazon.

Nel paper sosteneva che l’antitrust dagli anni Settanta e Ottanta in avanti si fosse concentrata solo sul più evidente benessere del consumatore. In sostanza, finché i prezzi rimanevano bassi non era necessario indagare ulteriormente. 

L’ingresso sul mercato di attori come Amazon per Khan ha invece evidenziato le falle di questo atteggiamento, «incapace di catturare l’architettura del potere di mercato nella moderna economia»: dietro i prezzi che al consumatore possono sembrare convenienti si nasconde una realtà accentratrice che va a eliminare i presupposti stessi di una sana concorrenza e di conseguenza finisce per falsare tutti i prezzi che possono stabilire le altre realtà, impossibilitate a offrirne di più bassi.

Integrando le linee di business, si legge nel suo abstract, le grandi piattaforme finiscono per controllare le stesse infrastrutture da cui dipendono anche i competitor: Amazon da solo offre il servizio di marketplace (la “vetrina” per i prodotti), di advertising, e anche i servizi di logistica, che vanno dal magazzino, alle spedizioni e ai resi.

L’accusa di hipsterismo

Una delle due possibili soluzioni che Khan ha proposto è un ritorno a strategie di intervento simili a quelle che tra fine Ottocento e inizio Novecento avevano impedito i monopoli nelle ferrovie e nel petrolio, tenendo presente che i nuovi modelli di mercato richiedono in ogni caso un «nuovo modo di pensare che sia ispirato dai principi tradizionali», come ha detto nel 2018 al New York Times. 

Soprattutto, per Khan le politiche di antitrust attuali sono penalizzate da una visione troppo a breve termine, quando l’asso nella manica di personaggi come Jeff Bezos è proprio la capacità di proiettarsi nel futuro.

L’incipit stesso del suo articolo ricorda come nei primi anni di Amazon, «uno scherzo ricorrente tra gli analisti di Wall Street era che Bezos stesse costruendo un castello di carte». Adesso, questo castello di carte ha ricavi annuali per più di 500 miliardi di dollari, e ha piantato le sue bandierine ben oltre la vendita al dettaglio, arrivando a inglobare infrastrutture, servizi di cloud, Hollywood. 

Il suo articolo secondo il New York Times, che nel 2018 ha dedicato un profilo a Khan, ha «riformulato decenni di leggi sul monopolio». Non è stato esente da critiche: tra gli altri, l’ex avvocato esperto in antitrust Konstantin Medvedovsky coniò per lei il termine “Hipster dell’Antitrust”, per cui «tutto quello che è vecchio è di nuovo cool». Medvedovsky ne va così fiero che ancora adesso lo cita nella sua bio su X, vecchio Twitter.

Nel 2018 Politico l’ha inserita nella sua lista delle 50 persone più influenti dell’anno.

In un recente articolo sul Financial Times, Khan ha di nuovo evidenziato l’importanza di regolare le strategie di acquisizione seriali, che non vengono utilizzate solo dalle società di private equity ma anche dalle grandi compagnie tecnologiche.

La sua nomina alla guida della Ftc è stato un segnale chiaro da parte dell’amministrazione Biden: i colossi come Meta, Google e Amazon sono ora sotto sorveglianza.

L’Italia

Quello che succede negli Stati Uniti è un movimento, e non è isolato. A settembre la Commissione europea ha annunciato che Alphabet (Google), Amazon, Apple, Bytedance (che possiede TikTok), Meta e Microsoft sono state classificate come società “Gatekeeper” nel quadro del Digital Markets Act, il nuovo regolamento europeo sui mercati digitali.

L’etichetta indica che queste società detengono una posizione dominante sul mercato, in base al fatturato annuo e al numero mensile di utenti europei, che deve essere maggiore di 45 milioni, e per questo saranno sottoposte a una lista di obblighi e divieti da rispettare per garantire la concorrenza.

Già nel dicembre del 2021, in Italia, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) aveva comminato una multa da più di 1 miliardo di euro ad Amazon per abuso di posizione dominante.  

In particolare, si legge sul comunicato pubblicato allora: «le società hanno legato all’utilizzo del servizio Logistica di Amazon l’accesso a un insieme di vantaggi essenziali per ottenere visibilità e migliori prospettive di vendite su Amazon.it. Tra tali vantaggi esclusivi spicca l’etichetta Prime, che consente di vendere con più facilità ai consumatori più fedeli e alto-spendenti aderenti all’omonimo programma di fidelizzazione di Amazon».

In sostanza, la stessa condotta evidenziata anche nella causa della Ftc: vincolando il venditore ai propri magazzini, pena l’esclusione dalla vetrina del marketplace, per gli altri operatori del settore logistico non ci sarebbe partita. Amazon aveva fatto ricorso al Tar del Lazio.

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