Da un punto di vista climatico, l’Artico sta collassando per lo stesso motivo per cui non ci vestiremmo di nero in una giornata torrida e le case sulle isole mediterranee sono di colori chiari. È uno di quei paradossi contro-intuitivi per i quali l’emergenza è così difficile da spiegare o inserire nel discorso pubblico: i posti più freddi della Terra sono quelli che si stanno riscaldando più in fretta. Il concetto chiave è quello di amplificazione artica, un meccanismo che porta una sensitività più elevata ai cambiamenti climatici.

La teoria funziona così: l’aumento delle temperature provoca la fusione dei ghiacci. Con meno ghiaccio marino, l’oceano artico assorbe più calore, perché il ghiaccio riflette la radiazione solare meglio dell’acqua. Più le temperature aumentano, più ghiaccio si perde. Più ghiaccio si perde, più aumentano le temperature, e così via. Questo meccanismo di amplificazione fa dell’Artico l’organo più vulnerabile di un pianeta malato. Una ferita aperta e difficile da suturare, che perde ghiaccio invece che sangue, al ritmo del 40 per cento della superficie negli ultimi quattro decenni.

Febbre artica

I primi articoli scientifici su questo argomento uscirono negli anni Sessanta: da decenni conosciamo questo punto debole, da allora è cambiata la nostra capacità di misurazione dell’emorragia artica, grazie alla combinazione di dati satellitari e modelli matematici.

L’ultima notizia è uscita ad agosto ma da noi si è persa nel rumore della campagna elettorale. L’Istituto finlandese di meteorologia ha pubblicato una nuova misurazione della febbre artica ed è molto più alta di quanto pensassimo: dal 1979 a oggi l’aumento di temperatura sopra il Circolo polare artico è stato di quasi quattro volte superiore alla media globale, mentre prima era stimato in un punto tra il doppio e il triplo.

Secondo i nuovi dati, mentre il pianeta si è riscaldato di 0,19°C per decennio, l’Artico è andato al ritmo 0,73°C, con punti, come il mare di Barents tra l’arcipelago delle Svalbard e l’isola Novaya Zemlya, di 1,25°C. Siamo molto più vicini di quanto pensassimo al punto di non ritorno: è la notizia peggiore di un’estate che aveva già sconvolto i modelli climatici, facendoli sembrare il bollettino dell’ottimista, con una siccità che ha asciugato i fiumi d’Europa e ondate di calore che si aspettavano tra almeno vent’anni.

L’Artico è il fronte più scoperto della crisi climatica, ci vivono appena quattro milioni di persone, è affidato quasi solo alla sorveglianza della scienza e alle dinamiche della geopolitica. Non c’è opinione pubblica a sorvegliarlo né elettori che possano cambiarne le sorti.

Sistema di circolazione

Carlo Barbante è il direttore dell’Istituto di Scienze polari del Cnr, c’era quando venticinque anni fa fu aperta la stazione di ricerca Dirigibile Italia al 78° parallelo, a Ny-Ålesund, proprio in quelle Svalbard epicentro della crisi. In due decenni e mezzo i ricercatori hanno visto l’ecosistema cambiare drammaticamente, una dinamica che non rimane confinata a quelle latitudini: «Quello che accade in Artico riguarda ogni essere umano sulla Terra. È come se stessimo manomettendo il nostro sistema di raffreddamento, quello che ci aiuta a mantenere le temperature sostenibili. Se l’Amazzonia è il polmone della Terra, l’Artico è il nostro sistema di circolazione».

Le implicazioni di questa manomissione riguardano tutta la meteorologia dell’emisfero nord. Un altro paradosso della crisi climatica è questo: una delle conseguenze del riscaldamento è che diventano più intense e pericolose le ondate di gelo e le tempeste di neve. Il ghiaccio marino è una barriera tra l’oceano e l’atmosfera: una volta che si assottiglia, nelle perturbazioni che periodicamente scendono verso Europa e Stati Uniti entra più umidità, causando eventi estremi invernali. La diminuzione della differenza di temperatura tra polo ed equatore sta indebolendo la corrente a getto, il fiume d’aria che separa quella fredda dell’Artico da quella temperata a sud. Se si guasta il sistema di circolazione, niente più funzionerà secondo i parametri noti.

Come spiega Barbante, «una volta superata una soglia, il sistema trova un equilibrio, ma non riesce a tornare indietro. Calotta polare e ghiaccio marino non rientreranno nella loro variabilità precedente». È una delle lezioni artiche: col clima quello che è rotto non si aggiusta più. Non c’è spazio per cure a posteriori né per il rimorso, conta solo la mitigazione dell’impatto, cioè prevenzione, la riduzione di emissioni di gas serra da combustibili fossili.

Uno sguardo alla Groenlandia

La perdita di ghiaccio marino non contribuisce all’innalzamento globale del livello del mare. Per capire come le zone costiere di tutto il mondo cambieranno volto nei prossimi decenni dobbiamo spostare lo sguardo sulla zona continentale: la Groenlandia. Come spiega Barbante: «Da quando abbiamo a disposizione i dati satellitari, possiamo vedere che la calotta groenlandese perde ghiaccio in modo incredibile». Parliamo di 280 miliardi di tonnellate all’anno, 420 piscine olimpioniche ogni singolo minuto, «tutta acqua che si riversa nell’Atlantico settentrionale». E quello sì che contribuisce a far salire del livello del mare.

Le conseguenze per noi: dal 1880 alla fine del Novecento, cioè per un secolo abbondante, il mare si è globalmente alzato di meno di due millimetri. Dal 1993 al 2002, cioè in dieci anni, il livello è cresciuto di 2,27 millimetri. Dal 2003 al 2012 di 3,3 millimetri. Dal 2013 al 2022 di 4,68 millimetri. Secondo una ricerca pubblicata su Nature, entro il 2100 circa 200 milioni di persone non potranno più stare dove vivono oggi. Un altro studio, più recente, ha stimato in 27 centimetri l’aumento del livello del mare solo per effetto della fusione in Groenlandia, con i livelli di riscaldamento attuali. 

«In due decenni in Groenlandia è cambiato tutto, non avevo mai visto i laghi sopra la calotta, perché il ghiaccio fondeva solo ai margini», dice Barbante. Nel 2021 un altro titolo aveva fatto tremare le mani agli studiosi di scienze polari: per la prima volta, al centro della Groenlandia, il 14 agosto ha piovuto invece di nevicare. Per chi conosce numeri e dati, la pioggia in quel contesto era l’orizzonte dell’impensabile, spostato ancora un po’ più in là.

Giovanni Baccolo, glaciologo dell’Università Bicocca, è da poco tornato da una missione nel nord della Groenlandia, dove ha raccolto campioni di ghiaccio per studiare gli effetti delle radiazioni degli esperimenti nucleari sovietici quando quel ghiaccio fonderà. È uno dei campi di ricerca del futuro: le conseguenze sistemiche della fusione, che non riguardano solo oceani e temperature, ma la biologia della vita sulla Terra.

(AP Photo/David Goldman, File)

Questa estate Baccolo ha trovato la Groenlandia in condizioni migliori, faceva il freddo che doveva fare e il ghiaccio marino non era fuso, ma non è la variabilità di un anno a cambiare la tendenza. «Quasi la totalità dei modelli sta faticando a predire il tasso di riscaldamento e i suoi effetti, soprattutto in Artico, e questo dipende dalla particolarità di quell’ambiente, ancora così remoto e poco conosciuto, con margini d’errore elevati. Più dati riceviamo dal campo e dai satelliti, più i modelli matematici diventano accurati». Il problema è che più diventano accurati, più diventano preoccupanti.

Un oceano senza ghiaccio

Il futuro di questa storia dipende da una cosa sola: quanta CO2 sarà emessa in atmosfera nei prossimi decenni. Il punto, come conclude Barbante, «è che una parte del futuro, quella che ci porta da oggi al 2050, è già ipotecata, anche rimanendo nei parametri dell’accordo di Parigi, perché le emissioni del passato sono destinate a rimanere nell’atmosfera a lungo. Quello su cui possiamo intervenire oggi è come sarà l’Artico nella seconda metà del secolo». Una prospettiva difficile da inserire nell’agenda politica dei singoli paesi, anche perché non tutti hanno da perdere dallo scenario peggiore, un oceano artico sempre libero dal ghiaccio d’estate a partire dal 2060.

Dal punto di vista climatologico, è considerato un punto di non ritorno da evitare a ogni costo. Da quello geopolitico, vuol dire la possibilità di sfruttare riserve di 160 miliardi di barili di petrolio e il 30 per cento del gas ancora da scoprire, e l’apertura costante dei passaggi a nord ovest, tra Atlantico e Pacifico, e a nord est, dallo stretto di Bering lungo la costa della Siberia, una prospettiva che cambierebbe gli equilibri della navigazione e del commercio globali.

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