Occupare, appropriarsi, misurare: secondo il giurista Carl Schmitt erano i fondamenti del diritto e della convivenza internazionale. Sulla terraferma, l’occupazione della terra e la fondazione di città sono stati veri e propri atti costitutivi che hanno disegnato il sistema statale. Ma non ovunque.

Per comprendere le periferie del globo – quelle delle grandi esplorazioni di marinai e pionieri – il pensiero occidentale fatica ancora a catturare l’atipicità di contesti geograficamente (per noi) contorti, specialmente quando estrarre risorse, sopravvivere e convivere diventano sfide reali. Soprattutto quando questa geografia cambia, a ritmi sempre più rapidi e imprevedibili, i rischi si moltiplicano.

Oggi, che cosa sia l’Artico non si sa. È mare ma è anche terra; è una periferia ma è (o diventerà?) anche un baricentro geopolitico; è una geografia misteriosa ma è anche meta turistica; è un esperimento di pace ma anche il punto più vicino tra giganti come Stati Uniti e Russia. Qui, gli Stati Uniti hanno recentemente riscoperto di essere una potenza artica, la Russia non ha mai smesso di ricordarlo, mentre gli stati europei faticano a trovare una via sull’incrocio tra Stati Uniti, Russia e la Cina, quest’ultima dichiaratasi nel 2018 “stato vicino all’Artico”. Che cos’è l’Artico oggi?

Artico non è (stato) solo pace

Di una cosa si è certi. Oggi più che mai, all’ombra di una guerra in Europa e di una crisi climatica sempre più devastante, l’èra dell’Artico come terra libera di scienziati ed esperimento di governance sembrano relegati alle grandi illusioni degli anni Novanta: la fine della storia, la fine della guerra, la fine della geografia. Nell’Artico, in realtà, nessuno di questi è terminato.

Anche chi crede nella tenuta dell’eccezionalismo artico o in un futuro dato dalla sua marginalizzazione non nega la preoccupazione verso un teatro che è passato dall’essere la “zona di pace” che ha segnato un grande momento di ripensamento sovietico (e americano) a fine anni Ottanta – poi effettivamente demilitarizzata da entrambe le superpotenze nel decennio successivo – a uno scenario più comune alle disilluse logiche internazionali.

Non è finita la storia perché la competizione tra stati e attori meno convenzionali (le compagnie commerciali, le spedizioni, le nazioni indigene) non ha risparmiato la regione per secoli, anche se spesso si tende a dimenticarsi della corsa al Passaggio a nord-ovest o al Polo, della caccia alle balene o alla concorrenza tra la North West Company e la Hudson’s Bay Company. Non è finita la geografia, a fronte di condizioni climatiche ancora ostili, di fondali oceanici finora mappati solo circa al 20 per cento del totale e dell’importanza sul mappamondo di una regione nella quale si intersecano i collegamenti tra le più grandi potenze (a differenza dell’Antartide). Su questo sfondo non è stata allontanata nemmeno la competizione militare.

Di Artico, di nuova Guerra fredda (anche in senso letterale) e di eldoradi ghiacciati si parla infatti già da una quindicina di anni, soprattutto da quando nel settembre del 2007 venne registrato il record di scioglimento del ghiaccio marino che parzialmente aprì il Passaggio a nord-ovest. Le potenzialità immense vennero accolte con entusiasmo fin da subito: terre rare, rotte commerciali e turistiche più accessibili e veloci, riserve di idrocarburi avrebbero segnato una nuova èra geopolitica.

Assieme agli anni di infatuazione per l’Artico arrivarono fin da subito le prime avvisaglie di una “naturale” caccia tra stati, attirati da una preda diventata improvvisamente allettante, collocata all’interno di un’arena sostanzialmente anarchica, priva di solidi regimi internazionali. In concomitanza con la rivendicazione russa del fondale del Polo, ripresero dal 2007 i voli dei bombardieri russi nella regione (attività sostanzialmente cessata con la fine della Guerra fredda), aumentando esponenzialmente in quantità; Stati Uniti e Nato, nel frattempo, cercavano di ritagliarsi, a fatica, un nuovo ruolo in una regione che appariva ancora confusa e inaspettata, passando come prima cosa dalla comfort zone del club degli stati costieri a Ilulissat. 

Teatro complesso

Non è facile in questo nuovo quadro capire a quali stimoli risponda la geopolitica artica. Per comprendere l’Artico è necessario distaccarsi da una visione manichea: non è né rivoluzionario né insignificante. Le potenzialità in termini di risorse sono ancora difficili da stimare, e, nonostante la crisi climatica, ancora difficili da estrarre. Vettori nazionali e internazionali si intrecciano nelle acque, nei fondali, nelle coste, nello spazio e nell’aria dell’Artico. Se nel caso dei nuovi arrivati (India, Cina, Singapore, Italia ecc.) questo è di per sé evidente, anche gli stati artici tradizionali non sono unicamente pedine stereotipate.

Se Svezia e Finlandia seguono traiettorie più europee, all’interno delle quali il nord è parte di un insieme nazionale più omogeneo, sempre in Scandinavia, la Norvegia mantiene invece una visione più focale, dove il High North è un’espressione autentica e per certi versi a sé stante di un’identità intrinsecamente artica.

Sul fronte americano, il Canada si impegna verso una valorizzazione della propria identità artica, massicciamente civile. In mezzo, Islanda e Groenlandia, prima fondamentali “strumenti” della Nato durante la Guerra fredda, volgono lo sguardo sempre di più verso la Cina, unico attore che sembra finora proporre effettive alternative volte al miglioramento della qualità della vita, all’interconnessione tra stati e alla vicinanza culturale.

Su questo sfondo, a sua volta, la Cina costruisce il ramo settentrionale della Belt and Road Initiative (la Polar silk road) in nome della cooperazione globale sbandierata negli anni dell’eccezionalismo artico – quella stessa fratellanza davanti alla quale, ora che si sta davvero verificando, molti storcono il naso. Il quadro artico diventa ora più che mai un teatro sfaccettato, pieno di chiaroscuri che riflettono il mix di interconnessione e disgregazione del nostro sistema internazionale, segnato anche dalla competizione militare.

Fino a pochi mesi fa, era stato dimostrato come la cooperazione nella regione non fosse venuta meno neppure a seguito dell’annessione della Crimea nel 2014. Nonostante la fine di alcune esercitazioni militari congiunte (ad esempio Northern Eagle) e i divieti di viaggio e le sanzioni offshore, il commercio (anche di petrolio) e il search-and-rescue (Exercise Barents, Barents Rescue Excercise, l’istituzione nel 2015 dell’Arctic Coast Guard Forum) non si erano significativamente incrinati. Anche le riunioni del Consiglio artico erano continuate con la presenza dei rappresentanti russi, decisione che a seguito dell’invasione del 2022 non verrà ripetuta. Molti sembravano essersene stupiti, tra il deluso e l’entusiasta: l’Artico vivrebbe, dunque, anche di una vita propria, nonostante sia inevitabilmente legato alle dinamiche dello scacchiere internazionale.

Vulnerabilità dei confini

Non possiamo sempre permetterci il lusso di leggere l’Artico in funzione della politica a noi vicina. Se vi è davvero un punto in comune tra le potenze è invece una questione spesso scomoda per leader, governi ed economie: l’innalzamento della temperatura media globale, la vera condanna che ha riportato la regione nell’arena internazionale dopo anni di solida pace.

Quello che accomuna gli attori artici è oggi la vulnerabilità che condividono ai confini settentrionali, oggi esposti agli incendi, al rilascio di metano, all’erosione costale e al cedimento del permafrost che sorregge installazioni, anche militari, e comunità locali.

Confini più vulnerabili richiedono più investimenti e una maggiore presenza militare, tutti componenti di un dilemma della sicurezza locale che risponderà soprattutto – ma non solo, come sempre – alle dinamiche interne di una regione che non abbiamo ancora del tutto compreso nella sua sfaccettata complessità, ma a volte nemmeno nei suoi aspetti più evidenti.

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