Per inquadrare in maniera precisa la situazione che la Birmania sta vivendo partiamo da alcuni dati illustrativi: a partire dal 1° febbraio 2021, infausta data del colpo di stato perpetrato per mano dei militari, circa duemila persone sono state uccise – alcune delle quali giustiziate in strada – più di 11mila si trovano in una situazione di detenzione e 115 sono state condannate a morte. Si tratta di cifre impressionanti, che, accomunate alle quasi 600mila persone sfollate a causa della violenza del regime, dipingono una situazione di estrema drammaticità; se a ciò si aggiunge che l’economia è crollata – anche a causa delle limitazioni imposte dal Covid-19 – e oltre la metà della popolazione si trova al di sotto della soglia di povertà si comprende come il paese si trovi sull’orlo del collasso.

Eppure, sebbene si trovi ad affrontare una crisi umanitaria senza precedenti, di cui – secondo Tom Andrews, il relatore sui diritti umani delle Nazioni unite in Birmania – i bambini stanno diventando uno dei bersagli preferiti dei militari al fine di spezzare la resistenza della popolazione, l’opinione pubblica mondiale sembra aver perso interesse nei confronti del paese del sudest asiatico.

Vista la complessa situazione provocata dalla guerra in Ucraina e i costi che ciò impone all’occidente e la necessità di riprendersi dal lungo e difficoltoso periodo determinato dalla pandemia ciò è certamente comprensibile, ma chiudere gli occhi davanti al genocidio e ai crimini contro l’umanità che stanno avendo luogo in Birmania non solo è imperdonabile, ma rischia di far sprofondare definitivamente il paese in un baratro dal quale potrebbe essere impossibile riemergere.

Un improvviso sussulto di attenzione mediatica verso la Birmania, tuttavia, si è verificato nelle ultime ore, quando si è diffusa la notizia del trasferimento di Aung San Suu Kyi, la famosa leader del partito National League for Democracy (Nld) e Nobel per la Pace nel 1991, presso un luogo di detenzione recentemente costruito nei pressi del penitenziario della capitale Naypyidaw, dove le numerose accuse contro di lei verranno d’ora in avanti discusse.

Le accuse

A partire dal maggio dello scorso anno, Aung San Suu Kyi – che finora era stata costretta agli arresti domiciliari in un luogo sconosciuto – è stata condannata a undici anni di prigione sulla base di improbabili capi d’accusa come il possesso di walkie-talkie, la violazione delle norme anti Covid, e la corruzione. Se tutte le accuse dovessero essere confermate, Aung San Suu Kyi rischia di vedersi condannata a più di 150 anni di prigione.

È plausibile che la stretta operata dai militari – che non hanno fornito alcuna spiegazione al riguardo – ai danni della Lady, che ha recentemente “festeggiato” il suo settantasettesimo compleanno, miri a confinarla ai margini della politica attiva per il resto dei suoi giorni. Del resto, Aung San Suu Kyi fu una delle prime a essere imprigionata il giorno stesso in cui l’Nld, risultato vittorioso alle elezioni, avrebbe dovuto esprimere un governo in grado di traghettare il paese verso una piena democrazia.

La situazione che si è profilata nel paese, ferme restando le indubbie responsabilità del Tatmadaw (le forze armate), è tuttavia figlia anche di un’errata strategia giocata dall’Nld e da Aung San Suu Kyi. Nel 2015, il partito guidato dalla Lady si impose alle elezioni e dichiarò che avrebbe cominciato a prendere seriamente in considerazione una serie di importanti istanze, come la ripresa economica, la transizione democratica e la riconciliazione interetnica.

Moltissimi, nel marzo 2016, quando Aung San Suu Kyi assunse la posizione di consigliere di stato (equivalente al primo ministro) la ritennero in grado non solo di mantenere tutte le promesse ma anche di far registrare un reale passo in avanti al paese.

Purtroppo, le cose sono andate diversamente. Di certo l’azione di governo è risultata inefficace a causa delle limitazioni stringenti imposte dalla Costituzione del 2008, che consegnava di fatto il controllo di un quarto del parlamento nelle mani dei militari – rendendo così impossibile qualunque cambiamento costituzionale – così come i ministeri “centrali” (confini, interni e difesa nazionale). Questo assetto ha continuato a riservare al Tatmadaw una posizione di assoluta centralità nel quadro istituzionale della Birmania, impedendo qualunque trasferimento di potere dalle mani dei generali a quelle dei civili eletti.

A parte ciò, Aung San Suu Kyi ha pagato a caro prezzo la sua debolezza come leader politico, peraltro già ampiamente visibile nel corso della campagna elettorale del 2015.

Nonostante la sua competenza su molte delle questioni che attanagliavano il paese fosse modesta, Aung San Suu Kyi non solo ha deciso di contornarsi di personaggi certamente più conosciuti per la devozione nei suoi confronti che per la loro reale capacità politica, ma ha dilapidato l’occasione di dare unità all’opposizione, non volendo dividere il proscenio con attivisti prodemocratici meno affermati di lei. Ciò l’ha fatta desistere anche dalla possibilità di stringere qualunque alleanza elettorale con le più rinomate organizzazioni della società civile o con i numerosi partiti formati su base etnica che avrebbero rappresentato degli alleati naturali dell’Nld.

Nel corso di quella campagna, peraltro, l’Nld non è riuscito a offrire alcuna soluzione specifica ai problemi reali del paese o alcun piano a lungo termine, trincerandosi dietro vaghe promesse, come la riconciliazione nazionale, la prosperità e la democrazia.

Diritti e minoranze

Vale la pena sottolineare come una delle questioni per cui Aung San Suu Kyi è stata maggiormente criticata è rappresentata non solo dall’indietreggiamento fatto registrare in questi anni in Birmania nell’ambito dei diritti umani e civili, con particolare riferimento ai frequenti attacchi ai giornalisti, ma, soprattutto, dal trattamento riservato ai musulmani Rohingya, la cui situazione ha continuato a precipitare.

Del resto, anche una sola parola in difesa dei Rohingya avrebbe potuto rivelarsi ferale per le sorti dell’Nld, il cui successo è legato al radicamento profondo in una società intensamente antimusulmana.

L’auspicio è certamente quello che la Birmania possa prima o poi uscire dalla difficile situazione che sta vivendo da oltre un anno e mezzo; del resto, invece di garantire alla Birmania una qualche forma di stabilità, il colpo di stato guidato dal generale Min Aung Hlaing ha esacerbato la frammentazione di un paese che già soffriva a causa dell’esistenza di più di cento etnie diverse all’interno dei propri confini.

Ciò che l’esperienza birmana, comunque, conferma è che non necessariamente coloro che hanno guidato la lotta per l’instaurazione del regime democratico debbano poi trasformarsi per forza di cose in grandi leader democratici.

 

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