Se è vero, come più commentatori hanno osservato sin dai primi giorni dell’invasione russa, che in Ucraina si combatte una guerra tanto europea quanto globale, volgere lo sguardo verso altri conflitti armati può fornirci qualche indizio circa come le guerre stiano cambiando su scala globale.

Si prendano ad esempio le guerre a Myanmar (il plurale è d’obbligo), spesso descritte come guerre “dimenticate” o a “bassa intensità”, benché di fatto siano i conflitti attivi più longevi sul pianeta – e illustrino come cicli di militarizzazione e riarmo siano alla base di tendenze alla territorializzazione dello spazio politico secondo logiche etno-nazionaliste.

Resistenza armata

A Myanmar la resistenza armata è presto diventata l’opzione preponderante tra i gruppi di opposizione al regime. Questo passaggio è avvenuto dopo una prima fase di mobilitazione pacifica in risposta al colpo di stato operato di un anno da parte del Tatmadaw, ovvero dalle forze armate del Myanmar che, negli ambienti della resistenza vengono chiamate sit-tat (gruppo armato) per deprivarle del suffisso daw, col quale esse si auto-conferiscono status regale, riferendosi alle dinastie precoloniali della maggioranza etnica Bamar.

La resistenza si è articolata lungo diverse direttrici, tanto nelle zone centrali pianeggianti quanto nei territori di confine. Con l’apertura del paese agli investimenti stranieri e dinamiche di accumulazione capitalistica della terra tramite espropriazione forzata, le prime negli ultimi decenni sono divenute serbatoio di lavoro migrante all’interno (a Myanmar così come nel sud est asiatico più in generale); le seconde sono da lungo tempo oggetto di un processo di inclusione forzata nei progetti di stato-nazione delle élite politiche e militari della maggioranza etnica Bamar.

Gruppi di difesa locale hanno cominciato a organizzarsi in una resistenza dal basso equipaggiata per lo più con armi di produzione artigianale. Con l’espandersi della resistenza in diversi centri urbani, molte di queste formazioni hanno dato corpo a una dinamica ricorrente nella storia politica del Myanmar che ciclicamente ha visto elementi della dissidenza trovare rifugio e addestramento militare nei territori di confine sotto l’influenza di organizzazioni politico-armate delle minoranze etniche.

Nel contesto del confine meridionale tra Myanmar e Thailandia ad esempio, il governo d’unità nazionale (Gun), istituito dai gruppi parlamentari emersi dalle elezioni del Dicembre 2020 ma nei fatti espressione della Lega nazionale per la democrazia di Daw Aung San Su Kyi, ha formato un suo esercito, le forze di difesa popolare (Fdp).

L’inquadramento di diversi gruppi armati locali sparsi in tutto il Myanmar all’interno dei ranghi delle Fdp però è rimasto farraginoso e ha portato alla luce alcune considerevoli faglie politiche negli sfaccettati mondi della lotta al regime militare.

Seppur diffusi in diverse zone del paese, i gruppi di difesa locale si sono consolidati ed espansi soprattutto in due aree. Uno: nella cosiddetta “dry zone” del Myanmar costituita dalle pianure centrali attraversate dal fiume Irrawaddy, in particolare le regioni di Mandalay, Magway e Sagaing, che per molto tempo hanno rappresentato il cuore dell’etnonazionalismo a sfondo Buddista e Bamar del sit-tat e che non a caso oggi sperimentano il dispiegarsi di violenti tattiche di controinsorgenza che l’esercito impiega alle frontiere dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Due: in quei territori di confine che negli ultimi decenni avevano visto diminuire il ruolo delle organizzazioni etniche armate lì presenti (come negli stati Chin e Karenni). In entrambe le aree i gruppi di difesa locale hanno continuato ad armarsi contando prevalentemente sulla manifattura artigianale di armi e sul traffico di piccola-media portata. Nella dry zone le Fdp non hanno fornito particolare supporto e molti gruppi sono rimasti autonomi o si sono distanziati in maniera netta dal governo parallelo del Gun. Mentre nei territori di confine la resistenza (anche quella afferente al Gun/Fdp) è spesso controllata in modo più o meno diretto dalle organizzazioni etniche armate, o deve necessariamente coordinarsi con esse da un punto di vista sia militare che politico.

Identità etno-nazionale

Non sono però solo ragioni e razionalità di tipo tattico e militare a dare sostanza a queste fratture e un passo indietro di carattere politico e storico si rende necessario per comprenderle appieno nella loro complessità e per comprendere la violenza che si è dispiegata contro la resistenza in questo anno e tre mesi.

Definendosi come l’unica forza in grado di garantire l’integrità dello stato, sin dal golpe del 1962 il sit-tat ha perseguito un progetto di costruzione dell’identità nazionale Bamar che ha come elemento centrale il concetto di Taingyintha (razze nazionali). Quello che potrebbe suonare come un ossimoro – può infatti una razza umana avere un carattere “nazionale” o essere proprio di una sola nazione? – esprime la visione secondo cui lo stato-nazione del Myanmar (termine che è sinonimo di Bamar, la maggioranza etnica del paese) sia costituito da diverse razze nazionali.

Replicando in parte una concezione politica buddista che vede il mondo materiale-terreno come luogo di disordine che deve essere disciplinato da un’autorità politica, le diverse Taingyintha sono considerate comunità etno-nazionali a uno stadio di civilizzazione arretrato che devono essere integrate nella nazione Bamar/Myanmar.

La costituzione del 2008, sulla base della quale il governo militare instauratosi dopo il colpo di stato opera, ha sancito una divisione amministrativa e territoriale dell’unione in sette regioni, in cui la popolazione è a maggioranza Bamar, e sette stati, all’interno dei quali in teoria la maggioranza della popolazione appartiene a una delle sette “razze nazionali” principali e in cui sono state ricavate delle zone di autonomia nominale – comunque controllate dalle autorità militari – per le altre etnie concepite come “minori”.

Inoltre, l’identità etno-nazionale è condizione necessaria per la cittadinanza: ovvero la cittadinanza è garantita ai soggetti che possono dimostrare di appartenere a una delle Taingyintha. Tale visione è impregnata anche di una precisa geografia politica che guarda ai territori di confine come frontiere da portare sotto il controllo statale, per la realizzazione della quale – dalla prospettiva del sit-tat – ha assunto un ruolo centrale il consolidamento di un’industria bellica indigena quasi totalmente autonoma.

Si tratta di un processo di lungo corso nel quale, tra l’altro, è interessante notare come non siano mancate le connessioni con l’industria, bellica e non, Italiana. Dalla cessione di design e diritti di riproduzione della cosiddetta “Ne Win Sten”, una copia della pistola mitragliatrice in dotazione all’esercito della repubblica sociale italiana, che in Birmania verrà utilizzata tra la fanteria nelle operazioni di controinsorgenza sino agli anni Novanta; alla compravendita di mine antiuomo. Da un coinvolgimento vociferato ma mai confermato (seppur oggetto di battute e luoghi comuni ricorrenti tra la comunità italiana nel paese) delle acciaierie Danieli nelle produzioni belliche del Ka-Pa-Sa (le industrie della difesa del sit-tat); all’invece più conclamato ruolo dei proventi risultanti dal commercio illegale di legno teak tra compagnie collegate al regime militare e l’industria italiana di Yacht.

Dispute e armamenti

Nonostante l’abolizione della costituzione del 2008 sia sempre stata in cima alle priorità del Gun, le posizioni più radicali nella resistenza (armata e non) vedono nel governo parallelo dominato dalle élite Bamar della Lega nazionale per la democrazia posizioni troppo conservatrici e in parte non distanti da quelle del regime. Inoltre, tra i movimenti politico-armati delle minoranze etniche esistono visioni disparate rispetto ai due interconnessi problemi della cittadinanza e della territorializzazione delle entità politico-territoriali di una futura Unione il cui nome per alcuni andrebbe ripensato.

Alcuni rimangono (seppur tacitamente) a favore dello status quo stabilito dalla costituzione del 2008, mentre altri, tra cui in primis lo United Wa State Party/Army (UWSP/A), che di fatto gestisce un proto-stato incastonato al confine orientale con la Cina, si fanno promotori di una suddivisione dell’Unione in diversi stati sulla base del criterio di proporzionalità tra popolazione delle minoranze etniche e confini territoriali.

«Questo significa essere una minoranza tra la minoranza», fa notare Khine, un’attivista e ricercatrice di nazionalità Ta’ang coinvolta nei movimenti di resistenza sin dagli anni Novanta, mentre racconta la storia della sua fuga dal Myanmar alla Thailandia. Qui in Thailandia infatti, non deve guardarsi solo dalle autorità thailandesi, che spesso collaborano con gli agenti del sit-tat per rintracciare la dissidenza in esilio, ma anche da un gruppo armato Shan (il consiglio rivoluzionario dello stato Shan, Crss) che mantiene una base al confine e accordi taciti che ne consentono la presenza nella Thailandia del nord. Opponendosi alla suddivisione su base proporzionale del territorio dello stato Shan, il più grande dell’Unione del Myanmar, il Crss da tempo combatte contro l’espandersi dell’insorgenza Ta’ang che rivendica uno spazio di autonomia all’interno dello stesso.

Queste dispute e visioni politiche si intrecciano a doppio filo con la produzione e circolazione di armamenti tra la resistenza. Particolarmente importante è il ruolo dello UWSP/A, il quale negli ultimi decenni è stato in grado di sviluppare una sua capacità produttiva di armi leggere e fungere da canale di circolazione di armamenti con l’assenso delle autorità c inesi regionali (Yunnan) e centrali. Stante la sua concezione di una suddivisione del territorio dell’Unione su base etno-nazionale in proporzione alla popolazione, nello scenario post-golpe lo UWSP/A si è mosso per consolidare la posizione di quei movimenti ribelli politicamente allineati su tale posizione ma si è astenuto ad esempio dal supportare le formazioni di resistenza collegate al Gun.

In uno scenario in cui produzione di armi, etnonazionalismo e tendenze alla territorializzazione dei confini diventano difficilmente districabili, la posizione più difficile rimane quella di chi decide di de-militarizzare l’azione politica e si trova a dover fare i conti con il riproporsi nei movimenti di resistenza politica e armata delle logiche che informano da almeno sette decadi la violenza del sit-tat in Myanmar.

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