Quaranta miliardi di yuan (circa sei miliardi di dollari) spariti da un manipolo di istituti di credito di una provincia in pieno sviluppo manifatturiero, lo Henan, in un paese enorme come la Cina, possono sembrare bruscolini. E invece lo scandalo bancario dello Henan potrebbe avere gravi conseguenze, anzitutto sulla fiducia nelle istituzioni finanziarie e nei governi locali.

Le proteste dei giorni scorsi – culminate nei tafferugli di domenica 10 luglio – hanno espresso proprio la rabbia dei risparmiatori nei confronti delle autorità che dal mese di aprile hanno congelato i loro conti correnti. Qualche migliaio di manifestanti arrabbiati che assediano l’authority bancaria provinciale, con le immagini che circolano sui social prima di essere rimosse dalla censura, in Cina non è roba da tutti i giorni.

Non solo, questa storia di non esattamente ordinaria corruzione (quattro banche sarebbero state controllate fin dal 2011 da bande criminali, che concedevano credito facile ad aziende dalla solidità più che dubbia, mentre le autorità locali chiudevano entrambi gli occhi), che fino a qualche anno fa avrebbe potuto essere affrontata con relativa tranquillità, non poteva esplodere in un momento peggiore: mentre nuovi focolai di Covid si manifestano a Shanghai, in attesa dei dati sull’economia del secondo trimestre che si annunciano tutt’altro che incoraggianti, col mercato immobiliare che si sta deprimendo, alla vigilia del XX Congresso del Partito comunista dell’autunno prossimo. Insomma il governo centrale, con ogni probabilità, sarà costretto a intervenire, e dovrà anche farlo presto.

Per ora, la banca centrale (Pboc) si è limitata ad assicurare che «il 99 per cento degli asset bancari è in sicurezza». Ma chi dovrà risarcire i cittadini derubati dalle banche? Le casse dei governi locali sono esangui, prosciugate anche dalle spese colossali per tenere in piedi la politica “contagi zero”, portata avanti a colpi di miliardi di tamponi e lockdown prolungati.

In Cina operano oltre 4mila piccole banche commerciali cittadine e rurali (che detengono circa il 30 per cento del credito complessivo), molte delle quali sono state istituite per servire le economie locali.

Nei prossimi giorni non si potrà continuare con i giochi di prestigio, come il finto codice rosso sulla app anti-Covid appioppato ai manifestanti per avere il pretesto per disperderli, grazie all’intervento dei famigerati picchiatori professionisti tutti con le t-shirt bianche. Anche perché le banche coinvolte potrebbero essere esposte nei confronti del settore immobiliare (l’investimento principe in Cina negli ultimi decenni), e contribuire ad assestargli un colpo ulteriore dopo il crollo di Evergrande.

«Il debito dell’Africa è colpa soprattutto dell’occidente»

I debiti contratti dai paesi africani nei confronti dell’occidente ammontano al triplo di quelli che hanno con Pechino, e gli interessi pretesi dalle istituzioni cinesi sono la metà di quelli occidentali. A rivelarlo è uno studio della Ong Debt Justice pubblicato lunedì 11 luglio, alla vigilia del vertice dei ministri delle Finanze del G20 che si svolgerà il 15 e 16 luglio in Indonesia. Secondo la ricerca “African governments owe three times more debt to private lenders than China”, il 12 per cento del debito estero dei paesi africani è in mani cinesi (con un interesse mediamente del 2,7 per cento), contro il 35 per cento detenuto da creditori privati occidentali (con un interesse medio del 5 per cento).

  • Perché è importante

Lo studio – compilato sulla base di dati della Banca mondiale – ha rilevato che una dozzina dei 22 paesi africani con i debiti più elevati (tra cui Capo Verde, Ciad, Egitto, Gabon, Malawi, Marocco, Ruanda, Senegal, Tunisia e Zambia) pagano oltre il 30 per cento delle loro restituzioni verso l’estero a prestatori privati. Tra i paesi maggiormente legati alla Cina, l’Angola ricco di petrolio e minerali (che paga il 59 per cento dei rimborsi alla Cina) e Gibuti, dove la Cina ha rinnovato il porto – dove sorge l’unica base militare all’estero di Pechino – (che corrisponde il 64 per cento delle restituzioni a Pechino). All’estremo opposto il Sud Sudan, i cui rimborsi vanno all’81 per cento a enti privati occidentali.

  • Il contesto

Le cifre pubblicate da Debt Justice smontano parzialmente la narrazione della cosiddetta “trappola del debito”, perché se è vero che i paesi africani sono meno esposti verso la Cina, è altrettanto vero che l’irruzione della Cina tra i prestatori internazionali ha contribuito all’aumento dell’indebitamento dei paesi in via di sviluppo. Secondo Tim Jones le accuse dei leader occidentali per le crisi debitorie dei paesi africani rappresentano una «distrazione». «La verità è che le loro stesse banche, gestori patrimoniali e commercianti di petrolio sono molto più responsabili, ma il G7 li sta liberando», ha sostenuto il capo delle politiche di Debt Justice.

Debt Justice e le altre Ong che si battono per la riduzione del fardello del debito per i paesi in via di sviluppo chiedono in particolare agli Stati Uniti e al Regno Unito di convincere i loro creditori ad andare oltre il Common Framework, l’ultimo piano dello stesso G20 per la riduzione del debito, convincendo i creditori privati a sospendere i rimborsi sul debito.

Yuan, di Lorenzo Riccardi

Asean e crescita globale

Il ministro dei Trasporti cinese ha annunciato la decisione di istituire un ufficio speciale per supervisionare il funzionamento del nuovo corridoio via terra e mare per la logistica e il commercio, che collega la Cina occidentale con paesi dell’Associazione delle nazioni del sud est asiatico (Asean). Il corridoio, con centro operativo a Chongqing, collega 14 province cinesi con 310 porti in 107 paesi e regioni del mondo, e in particolare promuove il commercio tra la Cina e i paesi dell’Asean nell’ambito della Regional comprehensive economic partnership (Rcep). Nel 2022, il ministero dei Trasporti si è posto l’obiettivo di ampliare la capacità di trasporto del corridoio con nuove infrastrutture quali ferrovie, autostrade, porti e aeroporti, oltre a promuovere lo sviluppo di un hub internazionale Chengdu-Chongqing.

L’Asean è una comunità eterogenea di nazioni unite da obiettivi comuni: tra i paesi membri vi sono infatti città stato con un elevato Pil pro-capite (Singapore e Brunei), nazioni popolose con un’economia dinamica e in espansione (Indonesia, Malaysia, Filippine, Tailandia e Vietnam), e paesi meno avanzati con un reddito medio-basso (Cambogia, Laos, e Myanmar). Nonostante le differenze tra i paesi membri, l’Asean è di per sé una delle principali aree di libero scambio con una quota di oltre il 7,5 per cento del commercio mondiale. L’accordo Afta Asean Free Trade Area ha portato alla realizzazione di un mercato unico nel 2009 con la firma dell’Asean Trade in Goods Agreement il quale permette che il 99 per cento dei beni scambiati nella regione sia oggi esente da dazi.

I paesi del sud est asiatico, che con 3.300 miliardi di dollari di Pil aggregato rappresentano circa il 3,5 per cento del Pil mondiale, sono stati fortemente colpiti dalla pandemia: nel 2020, il Pil regionale si è contratto del 3,2 per cento (con l’eccezione del Vietnam, cresciuto nell’anno di oltre il 2,9 per cento), per poi rimbalzare nel 2021 di oltre 3 per cento, nonostante il -18 per cento registrato in Myanmar in seguito alle tensioni politiche. Le stime più recenti, diffuse in occasione del meeting dei ministri dell’Economia dell’associazione, prevedono una crescita del 4,9 per cento per il 2022 e del 5,2 per cento per il 2023, superiori ai tassi di crescita che il Fondo monetario internazionale prevede per la Cina (4,4 per cento e 5,1 per cento), e per l’intera regione Asia-Pacifico (4,7 per cento e 4,9 per cento).

Nel 2022 è entrata in vigore la Rcep, il più grande accordo di libero scambio siglato ad oggi, e che permetterà la costituzione di un mercato che include, oltre ai paesi dell’Asean, anche Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. È utile evidenziare che il sud est asiatico è il principale partner commerciale della Cina (878 miliardi di dollari di interscambio nel 2021, e 371 miliardi nei primi cinque mesi del 2022, in rialzo del 10,2 per cento rispetto allo stesso periodo 2021), nonché terzo mercato di destinazione dei beni cinesi e principale origine delle importazioni cinesi.

Cina e Asean sono sempre più partner strategici nel ruolo crescente che ha oggi l’Asia sul commercio e sugli investimenti dell’economia globale.

Eccessiva dipendenza dalla Cina, diversificare la produzione di pannelli solari

Per assicurare la transizione dai combustibili fossili sarà necessario ridurre la dipendenza da Pechino per la produzione di pannelli fotovoltaici. L’indicazione arriva da un rapporto appena pubblicato dall’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), che sottolinea che il dominio cinese – con oltre l’80 per cento del mercato dei pannelli solari – ha creato enormi squilibri nelle filiere di questi prodotti essenziali per la transizione verde. La Iea ricorda che «la Cina è stata determinante nel ridurre i costi in tutto il mondo per il solare fotovoltaico, con molteplici vantaggi per le transizioni di energia pulita» ma, sottolinea il suo “Special Report on Solar PV Global Supply Chains”, «allo stesso tempo, il livello di concentrazione geografica nelle catene di approvvigionamento globali pone anche potenziali sfide che i governi devono affrontare».

  • Perché è importante

Per centrare l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050, da qui al 2030 sarà necessario quadruplicare ogni anno rispetto ai livelli attuali la messa in funzione di impianti fotovoltaici. La fabbricazione dei quali in Cina è un processo altamente inquinante: una produzione ultra-energivora, che ha luogo soprattutto nella regione del Xinjiang e nella provincia del Jiangsu, dove il 75 per cento delle fabbriche è alimentato da centrali a carbone.

  • Il contesto

Secondo il rapporto della Iea, dal 2011 la Cina ha investito oltre 50 miliardi di dollari (e creato 300 mila posti di lavoro nella relativa manifattura) nell’industria degli impianti fotovoltaici, dieci volte più dell’Europa. Ciò fa sì che attualmente fabbricare pannelli solari in Cina costa molto meno che nell’Unione europea. Come nel caso della fabbricazione della stragrande maggioranza dei semiconduttori più avanzati a Taiwan, anche per gli impianti fotovoltaici cinesi ridurre la dipendenza dall’estero comporterebbe un forte aumento dei costi per i consumatori. Ma per la Iea, «mentre i paesi accelerano i loro sforzi per ridurre le emissioni, devono garantire che la loro transizione verso un sistema energetico sostenibile sia costruita su basi sicure», ha affermato Birol. «Le catene di approvvigionamento globali del fotovoltaico dovranno essere ampliate in modo da garantire che siano resilienti, convenienti e sostenibili».

Consigli di lettura della settimana:

Per questa settimana è tutto. Per osservazioni, critiche e suggerimenti potete scrivermi a: exdir@cscc.it

Weilai vi invita a seguire il futuro della Cina su Domani, e vi dà appuntamento a giovedì prossimo.

A presto!

Michelangelo Cocco @classcharacters

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