«Si sta per chiudere una pagina nera per il Brasile e il mondo. Abbiamo le capacità, una volta mandato a casa Bolsonaro, di fermare la distruzione della foresta amazzonica e tornare a essere un paese modello di sostenibilità».

Marina Silva è la più famosa voce dell’ambientalismo in Brasile e figura nota a livello internazionale. Già ministra dell’Ambiente nel primo governo di Luiz Inácio Lula da Silva (2003-2008), ha iniziato le sue battaglie da ragazza al fianco di Chico Mendes, assassinato nel 1988 in una piantagione di caucciù. Ha poi rotto con il Partito dei lavoratori creando un movimento proprio e candidandosi per due volte alla presidenza.

Ora si è riavvicinata a Lula, con il quale ha firmato un documento che impegna l’ex operaio, in caso di vittoria alle presidenziali, per una «agenda ambientale trasversale».

Con Scenari, Marina Silva ha parlato di come superare la dicotomia tra sviluppo e ambiente, che tanti grattacapi le ha creato nella sua lunga carriera politica, ponendola ai margini delle grandi decisioni.

Anno zero dunque: ma cosa è successo in questi quattro anni nella politica ambientale del governo Bolsonaro?

«In realtà non c’è stata alcuna politica, c’è stata la scelta precisa di distruggere tutto quello che era stato fatto in precedenza, le conquiste degli ultimi decenni, e di portare avanti azioni per bloccare gli organi di controllo e di gestione. Solo per avere un’idea, oltre all’aumento della deforestazione e degli incendi in Amazzonia, e della violenza nel campo, non c’è stata la creazione di nemmeno un centimetro di aree protette o di terre indigene. Quindi la politica ambientale di Bolsonaro si è basata sulla scelta di non fare assolutamente nulla. Il risultato è che tutto è fuori controllo, e alcune funzioni del ministero dell’Ambiente sono state spostate in quello dell’Agricoltura, come la gestione delle acque e i servizi forestali. Ovviamente rispondendo ad altri interessi».

Ap Photo/Edmar Barros

L’immagine del Brasile in campo ambientale si è molto deteriorata negli ultimi anni. Ci sono conseguenze anche sul fronte dei commerci: l’Unione europea potrebbe approvare a breve una lista di prodotti che non arriverebbero più sui nostri scaffali, dalla carne bovina al mais, se originari di aggressioni all’ambiente, come la deforestazione selvaggia.

«La pessima immagine è la conseguenza dei fatti prodotti dal governo Bolsonaro. Lui sostiene che è una questione di pregiudizi verso il Brasile, dei media di sinistra, ma non è vero: tutto il mondo ha visto cosa è stato fatto negli ultimi anni. Ovviamente si dovrà ricominciare daccapo, affinché il Brasile non paghi un prezzo alto con i partner commerciali, con gli investitori, e torni a essere un protagonista nell’agenda ambientale. Noi sappiamo di poterlo fare.

Eravamo già riusciti, nel primo decennio di questo secolo, a ridurre la deforestazione dell’Amazzonia dell’83 per cento, tagliare le emissioni di CO2 nell’atmosfera per 5 miliardi di tonnellate: siamo stati il paese, dal 2003 al 2008, che ha creato l’80 per cento delle aree protette nel mondo intero. Quindi lo sappiamo fare, lo abbiamo già dimostrato.

Ha un costo alto? Certo, ma è necessario. Dobbiamo ripristinare e aggiornare il piano di prevenzione e controllo della deforestazione lanciato nei miei anni al ministero, e che ha funzionato per più di un decennio. Il Brasile già soffre le conseguenze di questa situazione, l’accordo tra Ue e Mercosur è fermo da dieci anni, gli investitori si tengono lontani perché temono di vedere il loro nome associato alla distruzione della foresta, alla violenza. E dobbiamo rispettare gli impegni presi nei vari round di negoziati internazionali, le condizioni esistono».

Nel 2008, dopo cinque anni di governo con Lula, lei lasciò il ministero dell’Ambiente per divergenze molto forti. Si ricordano soprattutto le sue battaglie contro i prodotti geneticamente modificati e le centrali idroelettriche in Amazzonia. Oggi si tratta di due realtà dalle quali è difficile tornare indietro, la soia brasiliana è ogm al 90 per cento e le centrali sono state costruite. Lei ha cambiato idea?

«Da candidato Lula ha fatto sua pubblicamente la nostra agenda, lui stesso ha affermato che questa politica trasversale per conciliare ambiente e sviluppo non sarà soltanto un’agenda per i ministeri, ma di alta priorità per la presidenza. Il mondo è cambiato da allora, basta guardare cosa ha fatto Joe Biden negli Stati Uniti, assumendo impegni internazionali che i suoi predecessori non avevano preso. Ci sono alternative anche alle grandi idroelettriche, oggi abbiamo tutte le condizioni per avere una matrice energetica pulita, sicura, diversificata. E Lula stesso ha ammesso che possiamo non ripetere la costruzione di strutture gigantesche nella foresta, come è successo nel caso di Belo Monte (la seconda maggior idroelettrica del mondo, molto polemica, ndr), che per me resta un errore.

Come ha scritto Hannah Arendt, quello che è già successo è irreversibile. Ora possiamo mettere mano a quello che abbiamo davanti, che è difficile da prevedere. Per l’imprevedibile abbiamo solo una cosa, il valore della promessa, dell’impegno. L’accordo firmato va chiaramente in direzione di una economia a basse emissioni, e noi qui in Brasile abbiamo addirittura condizioni migliori dei paesi del nord del mondo che hanno più risorse economiche: vento, sole, biomassa, tutto a un costo di kilowattora più basso del diesel, del carbone e addirittura delle fonti idroelettriche».

Le resistenze del grande agrobusiness brasiliano si stanno facendo sentire in questa campagna elettorale. Produttori e allevatori sostengono che la vostra piattaforma ambientale sia incompatibile con il settore trainante dell’economia nazionale, e stanno quasi tutti con Bolsonaro.

«Anche in agricoltura esiste la possibilità di transitare verso una produzione di basse emissioni, la tecnologia l’abbiamo, senza distruggere altra foresta. Possiamo raddoppiare la nostra produzione agricola senza tirar giù un solo albero, a regime semi-intensivo. Serve un cronogramma di transizione verso la riduzione delle emissioni e un programma apposito di infrastrutture. E abbiamo quasi 60 milioni di ettari di terre pubbliche che possono essere destinate non solo alla protezione integrale e alle comunità indigene, ma anche all’uso sostenibile, di prodotti della foresta con forte valore economico.

Avviando una vera politica di tolleranza zero con la deforestazione illegale si aprono tutte queste nuove prospettive. Il Brasile ha già un impegno per riforestare 12 milioni di ettari, il che genererebbe la creazione di 2 milioni di posti di lavoro. Non esiste un settore agrobusiness omogeneo, una parte di loro ha già capito che è ora di adeguarsi alla realtà, di rispettare gli accordi di Parigi, e accetta l’idea che non c’è bisogno di aumentare la produzione attraverso l’espansione predatoria della frontiera agricola, ma con incrementi di produttività.

Poi c’è un settore reazionario, molto rumoroso, che cerca di spingere la politica dal proprio lato, per un’agenda del secolo scorso. Io credo che non possano continuare a danneggiare gli interessi nazionali. Servono politiche chiare, trasparenti, che stabiliscano come fare le cose corrette, come transitare dal modello predatorio a quello sostenibile».

In caso di vittoria di Lula possiamo dare per scontato un suo ritorno alla guida del ministero dell’Ambiente?

«Io credo che un candidato alla presidenza non debba aprire un concorso per scegliere i ministri. Prima bisogna vincere le elezioni, il Brasile ha molti quadri rilevanti e di valore ma quello che importa in questo momento sono gli impegni che il candidato Lula ha assunto pubblicamente. Per questo ho deciso di tornare al suo fianco, non per ambizioni personali».

© Riproduzione riservata