«Gli attacchi indiscriminati contro i civili sono un crimine di guerra, Putin dovrà renderne conto. Rassicuriamo l’Ucraina sul nostro supporto», recita la dichiarazione congiunta del G7 di questo martedì.

La tavola rotonda virtuale è servita a lanciare un messaggio all’esterno, e per prima alla Russia: la comunità occidentale sostiene Kiev, ed è disposta a irrobustire il sostegno militare. Berlino e Washington faranno nuove consegne che rispondono alla richiesta di Volodymyr Zelensky di rafforzare la difesa aerea ucraina.

Ecco perché, contestualmente al vertice, il Cremlino ha lanciato la sua esca: «Non abbiamo mai rifiutato i contatti con gli Usa», e al G20 di novembre «la Russia può considerare un incontro tra Putin e Biden», ha detto il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.

Ci sono due fattori che la Russia non ignora. Il primo è che il G20 di Bali arriva dopo le elezioni di metà mandato Usa, momento di passaggio determinante per la postura di Washington riguardo alla guerra. «Il cessate il fuoco lo negozino gli Stati Uniti, con la Russia, e visto che Joe Biden si è spinto troppo ci pensi Donald Trump», fa eco al Cremlino il premier ungherese Viktor Orbán.

Il secondo fattore chiave è Pechino: non a caso il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha appuntato in agenda una visita a Xi Jinping il 3 e 4 novembre.

Le richieste di Kiev

«Non può esserci dialogo con Putin, i colloqui possono essere solo con un altro leader russo o in una configurazione che escluda il principale terrorista», è il messaggio diffuso questo martedì dal presidente ucraino. Collegato anche lui al G7, Zelensky ha invocato il tetto ai prezzi per il gas e il petrolio russi.

Dopo l’attacco al ponte in Crimea e nel pieno dei raid ritorsivi russi contro le città ucraine, il 10 ottobre il presidente ucraino aveva contattato Berlino e Parigi. Con Scholz, ha concordato la convocazione del G7, visto che è la Germania ad averne la presidenza. All’Eliseo, e poi agli altri leader del G7 contattati individualmente, Zelensky ha manifestato una richiesta in particolare: «Ci serve una reazione dura, e bisogna rafforzare la difesa aerea», ha detto a Emmanuel Macron. Messaggi simili sono andati a Liz Truss e Justin Trudeau. E ancora, alla Casa Bianca: «La difesa aerea è la priorità numero uno».

Due messaggi si distinguono dal coro. Uno è quello all’Italia. Poco prima che cominciasse il G7, Zelensky ha parlato con Mario Draghi; nel tweet sull’Italia, la richiesta di più sostegno militare non è esplicitata. «Ci siamo coordinati e ho ringraziato Draghi per il suo supporto».

L’altro caso a sé è la Polonia: una delle prime prese di contatto di Kiev lunedì è stata con Varsavia, che non è nel G7 e appare ben più che un semplice alleato. Con il presidente Andrzej Duda «abbiamo coordinato i prossimi passi». Zelensky fa trasparire l’ideazione di una strategia comune. Questo martedì il governo polacco ha avviato una ricognizione dei suoi rifugi antiaerei «in vista del peggiore scenario».

La vigilia americana

La Germania questa settimana ha dato a Kiev un segnale di ascolto: ha sbloccato l’invio, entro pochi giorni, del primo di quattro sistemi di difesa aerei super tecnologici in grado di proteggere una città intera. La promessa era già stata fatta, a giugno, e la spedizione era attesa per fine anno; ma in risposta ai raid russi il governo tedesco ha promesso un’accelerata.

Anche la Casa Bianca ha annunciato a Zelensky l’invio di sistemi di difesa aerei. Ma come il Cremlino e Orbán hanno fiutato, proprio a Washington in questa fase si apre qualche crepa.

L’8 novembre ci sono le elezioni di metà mandato e i repubblicani potrebbero conquistare anche il Congresso. Le oscillazioni nell’opinione pubblica, in questa fase preelettorale, assumono particolare peso. E le rilevazioni, ad esempio quelle effettuate dal Pew Research Center, mostrano che gli americani danno meno rilevanza alle sorti ucraine quest’autunno rispetto allo scorso maggio: a essere estremamente, o molto, preoccupato da una eventuale sconfitta ucraina è il 17 per cento in meno. Per quanto gli Stati Uniti risentano meno degli effetti della guerra rispetto all’Europa, pure oltre oceano si fa sentire la stanchezza. E i primi ad approfittarne sono i trumpiani amici di Viktor Orbán: a fine settembre, dopo l’uscita della rilevazione del Pew, il conduttore destrorso di Fox News Tucker Carlson, frequentatore dell’Ungheria e del suo premier, ha argomentato che «più a lungo va avanti la guerra, più poveri diventeremo tutti».

Per la Conservative Political Action Conference – alla quale partecipano repubblicani come Ted Cruz, ma pure orbaniani e meloniani – «non possono essere i nostri contribuenti a pagare i costi della guerra».

Ue e Cina

L’Europa è la più colpita dai «costi della guerra», ma la versione che l’Ue manda all’esterno, tramite il suo Alto rappresentante, Josep Borrell, è quella di un «incrollabile» e dunque incondizionato «supporto all’Ucraina» perché riprenda i territori fino ai confini internazionalmente riconosciuti; viceversa, la richiesta alla Russia è «il ritiro immediato, completo e incondizionato di truppe ed equipaggiamento militare dall’intero territorio ucraino». Non c’è spazio per discutere: «Le concessioni, le riappacificazioni, l’appeasement, non hanno mai funzionato, né funzioneranno mai», ha detto questo martedì la presidente dell’Europarlamento; anche la scorsa settimana, dal castello di Praga dov’era riunito il Consiglio europeo, ha invocato a muso duro davanti alle troupe televisive un maggiore sostegno militare a Kiev: «L’Ucraina ha bisogno di armi pesanti, e ha bisogno di carrarmati. Le servono armamenti. Gli stati membri possono fornirli».

I discorsi di Borrell portano traccia anche di una torsione anti Pechino: nei suoi interventi di questa settimana, l’Alto rappresentante ha accostato di frequente Russia e Cina. «C’è una lotta tra sistemi democratici e autoritari, che stanno dilagando, non solo in Cina e in Russia».

Bruxelles quantomeno a parole assume insomma l’apparato argomentativo statunitense, proprio quando gli Usa sul piano interno sono più in difficoltà a tenere le posizioni.

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