Sono passati quasi tre anni da quando il nuovo coronavirus ha sconvolto il mondo. A cominciare dalla Cina, dove le misure implementate per limitarne la diffusione e l’inasprirsi dello scontro con gli Stati Uniti nel bel mezzo della pandemia hanno accelerato cambiamenti tanto profondi da essersi meritati la definizione di “terza rivoluzione” della sinologa Elizabeth Economy. Dopo quella di Mao, segnata dalla fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc) e dalla lotta di classe, e quella di Deng, che aprì il paese al capitalismo mentre il partito allentava la morsa sulla società, con Xi Jinping – in maniera più evidente durante l’emergenza Sars-CoV-2 – la Cina ha cambiato rotta ancora una volta.

Le restrizioni alle libertà di movimento fin qui varate potrebbero rimanere in vigore ancora a lungo, ciononostante le mosse del gigante asiatico sono destinate a incidere profondamente sullo scacchiere internazionale, sulle dinamiche politiche interne, sull’economia e sulla società della Rpc. A quasi tre anni dalla comparsa del Sars-CoV-2 nel mercato Huanan di Wuhan, è possibile abbozzare un “bilancio preventivo” della linea che sarà espressa dalla nuova leadership eletta nel prossimo autunno dal XX congresso del Partito comunista cinese (Pcc).

A muso duro contro gli Usa

Il vertice andato in scena ad Anchorage il 18-19 marzo 2021 è stato il momento in cui la nuova èra di contrapposizione Cina/Stati Uniti si è manifestata nella maniera finora più eclatante, a favore di telecamere, immortalata su YouTube, sotto il titolo China-US Meeting: Alaska Summit (Full Version Video with the missed last 7 minutes added). Riprese che chiariscono cosa significa che d’ora in avanti «la Cina non accetta prediche ipocrite» (copyright Xi Jinping), così come il senso della «rinnovata competizione tra grandi potenze» a cui si fa riferimento nei documenti ufficiali dell’amministrazione Biden.

Il segretario di Stato, Antony Blinken, e il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, in una manciata di minuti esprimono le critiche del loro governo su Xinjiang, Hong Kong, Taiwan e sulla «coercizione economica (della Cina, ndr) nei confronti dei nostri alleati».

Yang Jiechi parte con una risposta fiume ricordando, tra l’altro, che «il popolo cinese si sta stringendo attorno al Partito comunista cinese. I nostri valori sono gli stessi valori comuni dell’umanità», prosegue il membro dell’Ufficio politico, tra i diplomatici più navigati di Xi, «pace, sviluppo, equità, giustizia, libertà e democrazia. Ciò che la Cina e la comunità internazionale seguono e applicano è il sistema internazionale incentrato sulle Nazioni unite e l’ordine internazionale sostenuto dal diritto internazionale, e non ciò che viene applicato da un piccolo gruppo di paesi, il cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole”».

Dichiarazioni che certificano non soltanto l’ormai evidente abbandono della politica estera seguita dai tempi di Deng Xiaoping, che raccomandava “Nascondi la forza, aspetta il tuo momento” (tāoguāng yăng huì), ma rivendicano che: I) a condurre le danze è il partito-stato (che si pretende tutt’uno col popolo); II) il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha eguale dignità rispetto alle democrazie liberali.

Intervenendo il 24 luglio scorso a un simposio sul “pensiero di Xi Jinping sulla diplomazia”, il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha aggiunto che la Cina «ha il coraggio per combattere una grande battaglia». Ciò vuol dire che sui contenziosi – come Taiwan e il mar Cinese meridionale – sui quali Pechino ritiene minacciata la sua sovranità e integrità territoriale, il paese che sforna una moderna nave da guerra ogni sei settimane si sta attrezzando per uno scontro con gli Usa, di cui contesta apertamente l’egemonia nel Pacifico occidentale. Siamo di fronte, evidentemente, a un cambiamento epocale.

Ispirandosi alla tradizione confuciana, la Cina si propone invece ai suoi vicini asiatici come potenza “benevolente”. Durante la pandemia il blocco dei dieci paesi Asean ha scavalcato l’Unione europea come primo partner commerciale di Pechino e, il 1° gennaio di quest’anno, è entrata in vigore la Regional comprehensive economic partenrship, l’area di libero scambio più grande del mondo, tra Asean e Cina, Giappone, Corea del sud, Australia e Nuova Zelanda.

La guerra in Ucraina, e il rifiuto di Pechino di condannare l’aggressione di Mosca, hanno favorito l’applicazione da parte dei democratici guidati da Biden di una politica sulla Cina in sostanziale continuità con quella della precedente amministrazione repubblicana. Si è chiusa ufficialmente un’èra, quella dell’engagement, della cooperazione Cina-Usa, che aveva segnato i decenni seguenti il riconoscimento statunitense della Rpc nel 1979. Washington sembra aver abbracciato un nuovo containment, provando a rispondere colpo su colpo alle iniziative di Pechino (con lo Indo-Pacific economic framework, gli aiuti governativi al settore dei semiconduttori, la visita di Nancy Pelosi a Taiwan, le operazioni per la libertà di navigazione nel Mcm e altre contromisure).

Ma gli Stati Uniti sono in grado di sostenere un prolungato braccio di ferro con una nazione che è il principale partner commerciale di 120 paesi; che non esporta alcun modello, avendo essa stessa definito “con caratteristiche cinesi” il suo socialismo; con un’economia dinamica e un’ideologia costantemente aggiornata per tenere compatto il partito e indottrinare la società, ovvero l’opposto di quella arretrata e ossificata dell’ex regime sovietico?

L’ideologia dei “contagi zero”

All’interno della Cina la pandemia ha rafforzato ulteriormente la figura di Xi, che si è intestato la politica “contagi zero”, e ha promosso a media unificati il discorso ideologico sulla superiorità del sistema cinese nella gestione delle crisi. Si tratta di una narrazione che ha nascosto il rovescio della medaglia, ovvero le imbarazzanti motivazioni sanitarie che hanno costretto all’isolamento il paese più popoloso del mondo.

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La ricerca farmaceutica cinese ha prodotto vaccini meno efficaci di quelli delle economie avanzate, gli ospedali della Rpc nel 2021 avevano solo 4,53 posti di terapia intensiva ogni 100mila abitanti, molti anziani non sono stati immunizzati. Da questo punto di vista la Cina si è dimostrata meno performante di un piccolo paese socialista come Cuba. Tuttavia, alla luce delle croniche carenze su elencate e dell’attitudine dei cinesi di precipitarsi in ospedale per qualsiasi acciacco, “contagi zero” appare come la risposta, attraverso gli strumenti a disposizione della Cina, a una minaccia che avrebbe potuto mietere – secondo uno recente studio dell’Università Fudan di Shanghai – fino a 1,6 milioni di morti, destabilizzando il governo del partito unico.

Le statistiche (5.226 morti ufficialmente registrati in Cina, oltre 1 milione negli Stati Uniti) e il monopolio dell’informazione hanno permesso al Pcc di imporre la sua narrazione della “vittoria nella guerra popolare contro il coronavirus”. E la rigida limitazione agli spostamenti interni della popolazione, controllata dalla app “codice sanitario”, e la mobilitazione generale delle strutture e delle organizzazioni di massa di un partito che nel 2021 ha raggiunto i 96,7 milioni di iscritti e circa 5 milioni di organizzazioni di base (jīcéng zŭzhī) hanno dimostrato la pervasività e scientificità del sistema di controllo sociale più avanzato della storia dell’umanità.

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La risoluzione sulla storia del Pcc

Un’altra pietra miliare piantata da Xi lungo la strada che lo ha portato a diventare più potente di Mao e Deng è stata la risoluzione del Comitato centrale del Partito comunista cinese sulle principali conquiste e l’esperienza storica del partito nell’ultimo secolo, varata dal VI plenum del XIX Comitato centrale (11 novembre 2021).

Contrariamente alle due risoluzioni approvate sotto la guida del grande e del piccolo timoniere che hanno riscritto la storia contemporanea della Cina, il fulcro di quest’ultimo documento è il partito stesso, citato 556 volte. In particolare la necessità di continuare a riformarlo e a rafforzarne il vertice: una leadership non più “collettiva”, ma identificata nella figura di Xi.

Nel complesso degli strumenti e delle politiche utilizzati per rendere Xi “insostituibile” spiccano ancora il colossale spoils system, con gli incarichi di segretari di partito nelle province e nelle grandi metropoli, e di governatori (molti dei quali papabili per un posto tra i 25 leader dell’Ufficio politico) assegnati a suoi fedelissimi; e la campagna anti corruzione, condotta dalla Commissione centrale di vigilanza, che Xi ha reso permanente.

Il Pil più grande del mondo

Il prodotto interno lordo della Cina ha fatto registrare +2,2 per cento nel 2020, +8,1 per cento nel 2021 e quest’anno – secondo le previsioni pubblicate a fine luglio dal Fondo monetario internazionale – crescerà del 3,3 per cento. Nei tre anni di pandemia il Pil degli Stati Uniti ha seguito il seguente andamento: -3,4 nel 2020, +5,7 nel 2021, mentre le stesse stime del Fmi per l’anno in corso indicano +2,3 per cento. In questo triennio il valore di beni e servizi prodotti dalla Cina ha superato mediamente quello degli Stati Uniti di tre punti percentuali (4,5 contro 1,5). Se continuerà a ricalcare questo trend, l’economia della Cina diventerà più grande di quella statunitense prima del 2030.

L’economia cinese è impegnata in una complessa transizione, da un modello basato sulle esportazioni e sugli iper-investimenti, a uno – la cosiddetta “doppia circolazione” (guónèi guójì shuāng xúnhuán) – che dovrebbe reggersi principalmente sul mercato interno, dando vita a una manifattura al livello delle economie avanzate. Come si concilia questa necessità con le mosse del governo, che ha ridimensionato in ogni ambito (economico, finanziario, ideologico) Alibaba, Tencent, Baidu e gli altri colossi nazionali dell’hi-tech, che nel 2021 hanno perso oltre 1.000 miliardi di capitalizzazione di mercato, mentre il crollo di Evergrande assestava un duro colpo al settore immobiliare (circa un terzo del Pil)?

Molto spesso i media stranieri hanno rappresentato le mosse della leadership come irrazionali e le crisi del sistema cinese come esiziali, sottovalutando la capacità di un’economia grande come quella cinese di riassorbirle, e le specificità del contesto in cui sono state varate politiche controverse. Anche con Xi Jinping l’economia cinese continua a evidenziare la sua resilienza. E conta sul fatto che – come dimostrato dalla pandemia – il mondo potrebbe aver bisogno della Cina più di quanto la Cina abbia bisogno del mondo.

E così, mentre fanno notizia le compagnie straniere intenzionate a chiudere i loro stabilimenti nella Rpc, gli investimenti diretti esteri in Cina durante i primi sei mesi del 2022 sono saliti a 723 miliardi di yuan (112 miliardi di dollari), in scia per far registrare l’ennesimo record. Tesla, che ha visto la sua fabbrica chiusa per tre settimane durante il lockdown di Shanghai, ha riaperto utilizzando una “bolla” e ora sta ingrandendo il suo stabilimento. Anche il produttore di aerei Airbus sta espandendo la sua capacità produttiva in Cina. Le grandi multinazionali continuano a trovare nella Rpc manodopera qualificata, agevolazioni governative e un enorme mercato di sbocco.

Il peso delle disuguaglianze

L’11 maggio 2021 i dati del VII censimento decennale (2010-2020) della Rpc hanno registrato nel 2020 soltanto 12 milioni di neonati (in calo per il quarto anno consecutivo), un tasso di fecondità (Tft) pari a 1,3 e – con 8,5 nati ogni 1.000 abitanti – quello di natalità più basso dal 1978. I dati relativi al 2021 hanno confermato questa tendenza, con 10,6 milioni di neonati, 7,5 ogni 1.000 abitanti.

Le impietose statistiche ufficiali sul continuo decremento delle nascite e sul rapido aumento degli over 64 suggeriscono che, presto, a causa della diminuzione della popolazione in età lavorativa, la Cina potrebbe riscoprirsi vecchia prima di diventare ricca.

Il 1° luglio 2021 Xi ha annunciato l’avvento di una società “moderatamente prospera” (xiăo kāng): «Siamo entrati nella storia per aver risolto il problema della povertà assoluta in Cina, e ora marciamo fiduciosi verso l’obiettivo del secondo centenario di trasformare la Cina in un grande paese socialista moderno in ogni ambito» entro il 2049, quando ricorrerà un secolo dalla proclamazione della Rpc.

A partire dalla stagione di “riforma e apertura” il miglioramento complessivo del tenore di vita dei cinesi è stato continuo e straordinario, avendo liberato dalla miseria 770 milioni di persone. In Cina nessuno guadagna meno di 1,9 dollari al giorno (il metro utilizzato dall’Onu per definire la condizione di “povertà estrema”).

Eppure il 28 maggio 2020, incontrando i giornalisti a margine della III sessione della XIII Assemblea nazionale del popolo, Li Keqiang rivelò che nel paese ci sono ancora circa 600 milioni di persone «il cui reddito mensile è di appena 1.000 yuan» (circa 150 dollari). «Non basta nemmeno per affittare una stanza in una città cinese di medie dimensioni», puntualizzò il premier.

Se alla classe media (prevalentemente urbana) di circa 400 milioni di persone, aggiungiamo i 600 milioni di poveri ai quali ha accennato il premier Li (tra i quali rientra una parte dei 375 milioni di lavoratori migranti e una fetta dei 509 milioni di cinesi che vivono ancora in aree rurali), i circa 300 milioni di pensionati, 2.918 “paperoni” con un patrimonio personale superiore a 310 milioni di dollari, e 1.185 miliardari, il risultato è una “stratificazione sociale” con notevoli differenze in termini sia di distribuzione della ricchezza sia di rapporti di potere tra le classi.

Verso il XX Congresso

La strategia del “benessere comune” (gòngtóng fùyù) è stata illustrata da Xi Jinping esattamente un anno fa. In quarant’anni di aperture di mercato la Cina ha accumulato ricchezza in maniera estremamente diseguale tra classi sociali, città e aree rurali, tra le ricche province costiere e quelle ancora sottosviluppate dell’interno. Ora è diventato urgente redistribuirla. Il gòngtóng fùyù risponde all’esigenza di «rafforzare le basi per il governo a lungo termine del partito». Infatti la contraddizione tra la permanenza al potere del Pcc, che nel suo programma dichiara che «l’ideale più alto e l’obiettivo ultimo è la realizzazione del comunismo», e una società nella quale il divario tra ricchi e poveri continua ad allargarsi, comprometterebbe la legittimità del governo del partito unico.

Applicando il coefficiente di Gini alla distribuzione della ricchezza (finanziaria e immobiliare), risulta che nel 2020 la Rpc ha fatto registrare un poco lusinghiero 0,704: il 30,06 per cento della ricchezza del paese concentrata nelle mani dell’1 per cento della popolazione più possidente. Il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha avvicinato pericolosamente la Cina al resto del mondo (capitalista), dove mediamente nello stesso 2020 l’1 per cento di miliardari aveva in tasca il 37,5 per cento della ricchezza.

Alcuni dei nuovi cresi cinesi hanno accumulato i loro tesori nell’ultimo ventennio grazie all’economia digitale. Anche per questo il sistema autoritario cinese ha voluto una punizione esemplare per Jack Ma & Co. La politica del “benessere comune” muove dalla consapevolezza che il processo di rivoluzione tecnologica e industriale rischia di acuire ulteriormente le disuguaglianze, violando il patto non scritto che, dopo la repressione di Tiananmen, ha legato il Pcc a una parte della società cinese che ne ha accettato il governo sine die in cambio del costante miglioramento degli standard di vita.

Dopo due lustri di dominio assoluto della politica, Xi Jinping ha bisogno dell’aiuto di tecnici ed economisti per continuare a sviluppare il paese in un contesto interno e internazionale stravolto dall’uno-due pandemia-guerra. Il XX Congresso, nell’autunno prossimo, si svolgerà in questo quadro rivoluzionato e la nuova leadership dovrà mostrarsi all’altezza di questa sfida storica.

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