Il 3 per cento nel 2022 – attestato martedì scorso dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs) – evidenzia la crescita del prodotto interno lordo della Cina più debole dalla morte di Mao nel 1976, dopo quella del 2020 (2,2 per cento).

A fare da cornice alla performance dell’anno scorso è stata la fase più controversa di “contagi zero”, segnata dai lockdown a oltranza nonostante fosse ormai chiaro che la politica promossa da Xi Jinping non riusciva a star dietro alla velocità di diffusione di Omicron: un anno e due punti di Pil persi per la seconda economia del pianeta, che secondo le previsioni di Goldman Sachs dovrebbe superare quella statunitense intorno al 2035.

Da quando, all’inizio di dicembre, sono state rimosse le restrizioni agli spostamenti interni e internazionali, il paese si è rimesso in moto. In base alla media calcolata dalla Reuters sulle previsioni di 49 economisti, quest’anno il Pil della Cina dovrebbe crescere del 4,9 per cento.

Nello stesso giorno della pubblicazione dei deludenti dati del 2022, Liu He ha ostentato ottimismo al World Economic Forum di Davos: «La Cina sta tornando». Il vice premier uscente ha invitato compagnie e fondi a investire in un paese che – ha assicurato – continuerà ad aprirsi e a sostenere il settore privato.

Chiuse, dopo due anni, le campagne che hanno rivoltato come calzini i colossi privati di internet, Liu ha sentito il bisogno di rassicurare che «è assolutamente impossibile che la Cina si orienti verso un modello di economia pianificata».

I colossi del greggio

Se un ritorno ai piani quinquennali di tipo sovietico dell’era di Mao è fuori discussione, è pur vero che a uscire rafforzate nell’anno del “definitivo” consolidamento del potere di Xi Jinping certificato dal XX congresso del partito comunista sono state le 98 aziende di stato (Soe) controllate direttamente dal governo centrale.

Secondo i dati resi noti martedì dall’ente che si occupa della loro supervisione – la State-owned Assets Supervision and Administration Commission (Sasac) –, i loro profitti nel 2022 sono aumentati del 5 per cento, quasi il doppio del Pil, raggiungendo 1.900 miliardi di yuan (260 miliari di euro).

Senza svelare quali, il segretario generale della Sasac, Peng Huagang, ha comunicato che l’anno scorso sette Soe hanno registrato profitti superiori a 100 miliardi di yuan (13,6 miliardi di euro) e quattro a 50 miliardi di yuan (6,8 miliardi di euro).

A fare gli affari più lucrosi sono state quelle delle materie prime energetiche e agricole, favorite dal rialzo dei prezzi provocato dalla guerra in Ucraina. Ad esempio, dai bilanci aziendali risulta che nei primi tre trimestri del 2022 i colossi petroliferi PetroChina e China National Offshore Oil Corporation hanno macinato profitti per 120 e 108 miliardi di yuan, rispettivamente +60 per cento e +106 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Settore chiave

Peng ha spiegato così l’obiettivo che, anche quest’anno, sarà una priorità per Xi Jinping e compagni: «Garantire che il tasso di crescita dei profitti complessivi delle aziende di stato sia superiore a quello del Pil nazionale, che le stesse Soe hanno ritenuto un must negli ultimi anni».

Peng ha aggiunto che «le Soe centrali (da non confondere con le oltre 150.000 compagnie controllate dai governi locali, ndr) devono fungere da stabilizzatore per la crescita costante del paese».

Questi colossi – che hanno il monopolio dei settori dell’energia, delle telecomunicazioni, della difesa, dei trasporti aerei e ferroviari, interamente controllati dallo stato – sono stati sottoposti a una prima, pesante ristrutturazione dal premier Zhu Rongji, durante la presidenza di Jiang Zemin.

Ma la sua politica denominata zhuā dà fàng xiǎo (aggrapparsi alle grandi, lasciar andare le piccole) è continuata fino a oggi, sotto la guida della Sasac, che non ha smesso di ridurne il numero, attraverso privatizzazioni, fusioni e acquisizioni, chiusure: una ristrutturazione continua che punta a trasformarle in compagnie moderne ed efficienti orientate al profitto. Così le Soe si sono ridotte da 149 nel 2008 alle attuali 98.

Oggi il complesso del settore statale genera in Cina il 35 per cento del Pil. E, in una fase complessa, sia all’interno che nelle relazioni con l’occidente, è la stessa Sasac a chiarire che il governo continuerà «a fare affidamento sul ruolo guida e sul sostegno strategico dell’economia statale per aiutare il paese a stabilizzare la crescita, l’occupazione e i prezzi dei beni, contribuendo al miglioramento generale del funzionamento del sistema economico.

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