Jack Ma sta assistendo da esule alla ristrutturazione del suo impero innescata dai provvedimenti della leadership cinese per frenare i monopoli nell’economia digitale (il 40 per cento del Pil nel 2021) e quella che Xi Jinping e compagni hanno definito «crescita disordinata di capitale».

Poche ore prima che, l’altro ieri, venisse pubblicata la notizia che il quinto uomo più ricco della Cina ha perso il controllo del colosso finanziario Ant Group, ma è riapparso, a cena in un ristorantino di Bangkok. La proprietaria ha postato su Instagram la sua foto con il magnate «incredibilmente umile» (il cui patrimonio si è dimezzato, da 50 a 25 miliardi di dollari) che si è detta onorata di aver ospitato assieme ai suoi familiari.

Mai in Cina

Foto AP

Negli ultimi mesi il cinquantottenne ex insegnante d’inglese che nella sua Hangzhou ha dato vita al colosso del commercio elettronico Alibaba aveva vissuto a Tokyo, l’estate scorsa il suo yacht “Zen” era stato avvistato intorno all’isola di Maiorca.

Ovunque fuorché in Cina, dove l’imprenditore più popolare del paese, l’uomo che ha riempito i rotocalchi e gli stadi dove si esibiva – voce e chitarra – in concerti rock per i suoi dipendenti, non si fa vedere in pubblico dal 24 ottobre 2020, quando ebbe l’ardire di criticare la burocrazia finanziaria, paragonando gli istituti di credito cinesi a «banchi dei pegni».

Una stoccata che arrivò dritta dritta a Xi Jinping, dando il la alla campagna con la quale il governo ha addomesticato e ridimensionato in ogni ambito (finanziario, economico, ideologico) Alibaba, Tencent e le altre. Compagnie che avevano potuto ingrandirsi e arricchirsi a dismisura a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, operando in regime di laissez-faire, perché allora i piani del potere politico incoraggiavano la formazione di giganti nazionali, anche per tenere fuori dal mercato quelli stranieri.

Potere agli “indipendenti”

Foto AP

Con Xi l’economia di internet è entrata in una nuova èra, nata dall’incrocio di tre imperativi: favorire un percorso d’innovazione dall’alto verso il basso, guidato dai piani governativi; mettere in sicurezza i dati delle big high-tech in un contesto di scontro con gli Usa; orientare i messaggi veicolati dalla rete.

Ant Group, terza al mondo per servizi finanziari dopo Upi e Visa, e proprietaria di Alipay (con 1,3 miliardi di utenti il maggior sistema di pagamenti elettronici da mobile del pianeta), sabato ha annunciato lo scioglimento del patto di sindacato tra il presidente Eric Jing, l’ex direttore esecutivo Simon Hu, Jiang Fang di Alibaba e Jack Ma, che garantiva a quest’ultimo il controllo del 53,46 per cento dei voti.

La compagnia ha chiarito che, di conseguenza, «nessun azionista, da solo o congiuntamente con un altro azionista, avrà la possibilità di stabilire l’esito delle assemblee di Ant, né di nominare la maggioranza del consiglio di amministrazione, e quindi, di controllarla».

Tra i nove componenti del consiglio di amministrazione – secondo Bloomberg – a Ma spetterà il 6,2 per cento. La maggior parte delle quote del nuovo cda è in mano a “indipendenti” tra i quali spicca Laura Cha, presidente della borsa di Hong Kong, nonché ex delegata di Hong Kong all’Assemblea nazionale del popolo di Pechino ed ex vice presidente del comitato internazionale consultivo della China Securities Regulatory Commission (Csrc).

La ristrutturazione – si legge nel comunicato di Ant – «migliorerà ulteriormente la stabilità della nostra struttura aziendale e la sostenibilità del nostro sviluppo a lungo termine». Secondo gli analisti finanziari cinesi, la fine del controllo di Ma sulla sua cassaforte coinciderà con quella dell’asfissiante scrutinio e della stretta regolatoria a cui il governo ha sottoposto negli ultimi due anni le grandi compagnie di internet.

Alibaba è stata colpita con una sanzione di 2,8 miliardi di dollari nell’aprile 2021 per aver violato le regole antitrust cinesi. Anche Ant – i cui servizi includono il credito al consumo e la gestione patrimoniale – è stata rivoltata come un calzino.

Costretta al raddoppio del capitale, invitata a correggere pratiche “anti competizione” della sua piattaforma di pagamento mobile Alipay e a migliorare la protezione dei dati degli utenti, è in attesa di una multa che potrebbe toccare il miliardo di dollari.

Aspettando l’Ipo in borsa

Ma dopo che Xi ha convinto Jack Ma, Pony Ma (l’ad di Tencent) e altri magnati di internet a effettuare donazioni milionarie per lo sviluppo delle aree rurali più povere e a contribuire alla sua strategia del “benessere comune”, ora il partito comunista è pronto ad allentare le briglie, perché ha bisogno del loro dinamismo e dei loro investimenti per far ripartire l’economia privata, indebolita dall’uno-due stretta regolatoria-pandemia.

E così Ant Group potrà riprendere anche il cammino verso l’offerta pubblica iniziale (Ipo) interrotto dal governo il 3 novembre 2020, 48 ore prima della quotazione grazie alla quale Ma avrebbe raccolto 37 miliardi di dollari nelle borse cinesi.

Il mese scorso la filiale di Chongqing della China Banking and Insurance Regulatory Commission (Cbirc) ha approvato un piano di espansione del capitale di Chongqing Ant Consumer Finance da 10,5 miliardi di yuan (1,5 miliardi di dollari) a 18,5 miliardi di yuan.

Ma i tempi per l’agognata Ipo potrebbero essere lunghi: almeno un anno se venisse presentata a Hong Kong, due per Shanghai e tre per le altre borse, che impongono attese diverse in seguito al cambiamento dell’assetto azionario.

Un periodo che nel capitalismo cinese guidato dal partito-stato verrà utilizzato per stabilire quali investitori istituzionali e quali gruppi di potere dovranno spartirsi il controllo di Ant Group, in una fase complicata per il mercato azionario cinese, le cui azioni nel 2022 hanno perso il 23 per cento del valore, peggior risultato dal 2008. E per le big di internet, che nei prossimi anni, in conseguenza della contrazione della domanda e delle nuove regole introdotte dal governo, macineranno profitti decisamente inferiori al passato.

© Riproduzione riservata